Senza infermieri sul territorio (ma non solo) non c’è salute: protagonisti del cambiamento e dei nuovi modelli
La Missione 6 del Recovery Plan inviato a Bruxelles piace agli infermieri e non solo perché raddoppia la disponibilità di risorse per l’assistenza sul territorio, ma perché parla la loro lingua: reti di prossimità, Casa della Comunità, domicilio, Ospedali di comunità.
Sono gli strumenti su cui si sta impostando il nuovo modello per dare gambe all’assistenza territoriale del Recovery, in grado di dare da un lato assistenza senza lasciare mai solo nessuno e dall’altro prevenzione per i cittadini, partendo dai 26 milioni con cronicità semplici o complesse che troveranno il loro riferimento nelle Case di comunità, Ospedali di comunità e assistenza domiciliare integrata (Adi), nelle cure domiciliari di II e III livello, nelle cure palliative e negli hospice, fino ai 34,4 milioni di “sani” per i quali le Case della comunità faranno prevenzione primaria e secondaria.
Le Case di comunità oggi non raggiungono le 500 unità (489), ma la previsione è che ce ne sia una ogni 20mila abitanti (quindi circa 3mila) e grazie ai fondi del Recovery ne potranno essere attivate quasi altre 1.300 e per il 2026 (anno di termine per il PNRR) quando si arriverà a 1.777. E avranno un team multidisciplinare di: medici di medicina generale, specialisti, infermieri di famiglia e comunità, altri professionisti della salute e potranno ospitare anche assistenti sociali.
Per le cure domiciliari, tutte da potenziare, già oggi nell’Adi gli infermieri impegnano circa il quadruplo delle ore per paziente delle altre professioni, e sono altrettanto rilevanti e presenti nelle reti di cure palliative (sempre a domicilio), ma saranno presenti con l’infermiere di famiglia e comunità in modo massiccio e tale da rispettare la previsione del 10% almeno di over 65 assistiti a casa (oltre 1,5 milioni di cittadini, sempre al 2026).
Infermieri di famiglia e comunità che saranno anche nelle centrali operative territoriali destinate a coordinare la presa in carico del cittadino/paziente e raccordare i servizi e i soggetti coinvolti nel processo assistenziale nei diversi setting assistenziali: attività territoriali, sanitarie e sociosanitarie, ospedaliere e della rete di emergenza-urgenza.
L’ospedale di comunità è già previsto che sia a gestione infermieristica e ce ne dovranno essere almeno 1.205 (1 ogni 50mila abitanti) con oltre 10mila posti letto: si punta al 2026 (ultimo anno del PNRR) per realizzare i quasi 400 che mancano con oltre 7.600 posti letto.
Per fare tutto questo è necessaria una rete sanitaria territoriale capillare con un approccio proattivo che assicuri anche un minor rischio di sviluppo, di riacutizzazione e di progressione delle condizioni croniche, una riduzione dei ricoveri ad alto rischio di inappropriatezza, quali ad esempio diabete, scompenso cardiaco, malattia polmonare cronica ostruttiva e ipertensione.
“Maggiore appropriatezza quindi – sottolinea Barbara Mangiacavalli, presidente della Federazione nazionale ordini professioni infermieristiche (FNOPI) – e integrazione sociosanitaria con la possibilità di rispondere in modo personalizzato alle necessità della persona e della famiglia. Per questo sarà necessario, tra l’altro, personale sanitario specializzato e formato, con compensi e possibilità di carriera adeguati e dedicato soprattutto ai fragili per una migliore presa in carico della comunità di riferimento. E soprattutto in numero sufficiente alle esigenze del nuovo modello”.
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