TEATROVID-19 Il teatro ai tempi del Corona (verso la fine della pandemia?)
Teatro Marconi
Tratto da un opera teatrale di Roberta Calandra
regia di Mariano Lamberti
Con la partecipazione della celebre Drag Queen italiana Mariano Gallo nei panni di Cecil Beaton; Marit Nissen in quelli di Marlene Dietrich; Tiziana Sensi in quelli di Greta Garbo e Caterina Gramaglia in quelli di Mercedes De Acosta.
È una storia hollywoodiana che racconta gli anni ’30, quando il codice Hays imponeva rigide limitazioni morali alla produzione cinematografica americana. Di fatto sì trattava di una forte censura verso i comportamenti “deviati” non in linea con la morale “corretta” dell’epoca.
Mariano Lamberti crea una connessione con la cultura newyorkese delle Ball room degli anni ’80, quando questa comunità emarginata anche a causa dell’AIDS, cerca di riscattarsi.
Ho trovato una bella fila all’entrata. Evidentemente lo spettacolo e i nomi in cartellone attirano l’interesse di un pubblico eterogeneo, composto soprattutto dalla comunità gay romana.
Avevo paura e ho ancora paura di scrivere un articolo su questo spettacolo, in primis perché parla di un mondo che non conosco, in secondo luogo perché sono stato fuorviato, o forse ho semplicemente mal interpretato la sinossi che ho ricevuto.
Dunque all’inizio sono stato per così dire scioccato, sbatacchiato da tutte queste luci, dai suoni e dall’impatto con la forte personalità di Cecil (Mariano). Lo spettacolo non mi stava piacendo.
Poi ho capito che il sentirmi un pesce fuor d’acqua era dovuto alla mia cultura atavica, al mio essere “nei limiti” e forse non ancora in grado di capire tutto quello che si affronta sulla scena.
Mi sono sentito quasi violentato da questa esplicita realtà a cui non sono evidentemente abituato. Piano piano, però, ho cercato di entrare nell’ordine delle idee, così mi sono rilassato ed “aperto”, facendomi trasportare e anche affascinare da tutto il contesto, cercando di non ascoltare quegli anacronistici pregiudizi che spesso sono radicati nel DNA culturale di molti di noi. Ho cercato di farmi rapire da un mondo insolito così distante ma allo stesso tempo cosi vicino al mio e che ho sempre ignorato, ma che esiste e va rispettato, prima di tutto come un’altrui scelta di vita, e poi anche come forma di arte. Arte sicuramente esplicita, provocatoria, ma indubbiamente ammaliante e affascinante, e abitata da persone molto sensibili.
Rifiutare è il primo sentimento partorito dall’ignoranza, dal non capire qualcosa. È una difesa atta a proteggerci. Rifiutiamo ciò che non comprendiamo, ma così facendo ci dileggiamo da soli, convinti di aver fatto una scelta che in realtà abbiamo subito per paura, e ci ritraiamo in un “non mi piace”.
Indubbiamente sono stato aiutato ad entrare nel vivo della storia grazie a questi mostri sacri del palco, vere e grandi professioniste dello spettacolo, che forse erano talmente immerse nei loro personaggi da non accorgersi di essersi dimostrate più dive delle dive che hanno interpretato.
Mi sono trovato davanti alla storia di due grandissime icone del cinema: Marlen Dietrich e Greta Garbo, raccontate da Mercedes De Acosta, poetessa e scrittrice lesbica, rappresentata in maniera struggente da una divina Caterina Gramaglia, in grado di trasmettere tutta la sofferenza dell’anima di Mercedes attraverso la sua voce tremante e gli atteggiamenti succubi. Caterina vive il dramma di una donna che si perde emotivamente tra le relazioni con queste due attrici, interpretate da due magnifiche artiste: Tiziana Sensi e Marit Nissen, eccezionalmente realistiche nei panni della Garbo e della Dietrich che, con il loro approccio alla vita, mi hanno riportato in mente i poeti maledetti dell’800.
Uno strano destino il loro, che le vede da una parte grandi dive osannate e amate da tutti, ma al contempo condannate ad una vita privata triste e sofferta che le rende carnefici e vittime di se stesse. Questo mi ha colpito molto, perché non conoscevo i paradossali retroscena di queste artiste di cui conosciamo solo il successo. In realtà loro hanno vissuto una vita di sotterfugi, nascondendosi da occhi indiscreti, cercando di essere felici senza sapere come. Anime dannate, appunto.
Cecil era il fotografo delle dive; qui è rappresentato come una sorta di Caronte che traghetta la povera anima e fa da trampolino per la giovane Mercedes, mettendola in contatto con le dive ed il loro mondo crudele per condividere la stessa infelicità.
All’improvviso, all’apertura del sipario, mentre Mariano è nascosto in una nebbia spettrale nelle vesti di narratore e ci parla di loro, un riflettore illumina la sala e queste stupende figure femminili appaiono alle nostre spalle. Rispecchiano subito quel fascino passato, con la loro bellezza ammaliante, così come sarebbe accaduto all’epoca se ci fossimo trovati al loro cospetto. Le loro posture, il modo di camminare, i vestiti, gli ammiccamenti, il trucco sprizzano una femminilità che pare irraggiungibile e che non può non affascinare sia gli uomini che le donne. Sono le dive, o forse sono angeli; sono intoccabili pur essendo, nel loro profondo, anime dannate apparentemente felici.
Nonostante Greta e Marlene siano in primo piano, in realtà la protagonista è proprio Mercedes, colei che racconta.
Quello che mi ha colpito è proprio questo: capire che il personaggio principale si nascondesse dietro uno apparentemente secondario, messo in ombra da queste figure giganti. È proprio lei invece che racconta (lo spettacolo è tratto dalle sue memorie), la sua e le loro storie, mentre Mariano entra rompendo gli schemi e sconquassando con la sua verve quell’atmosfera dei fumosi tempi andati, che però ogni volta si ricrea magicamente. Cecil è un personaggio difficile da inquadrare, sembra essere a cavallo tra due mondi differenti: si muove negli anni ’30 ma appare più moderno e contemporaneo. Un personaggio ambiguo, sfrontato, sfacciato, prepotente con la sua ambigua sessualità. In lui c’è il demone della trasgressione che terrorizzava i benpensanti del suo periodo che tanto si impegnarono per promulgare la famosa legge Hays, senza però riuscire ad imbrigliare questa cultura.
Tiziana, Manit e Caterina sono semplicemente fantastiche, sono la quintessenza delle dive che riescono a far rivivere. Sembrano rompere la barriera del tempo e arrivare qui dagli anni ’30. Ho visto il loro effetto sul pubblico estasiato.
La storia, oltre ai tristi retroscena, giunge al triste epilogo in cui le dive sono sulla strada del tramonto, ormai bruciate dalla loro vita, consumate dall’industria del cinema che le ha spremute. Spezzano la loro solitudine con l’unica compagnia rimasta: i rimpianti. “Una vita sprecata”, dirà una di loro della propria esistenza. Donne invidiate, amate e vanamente imitate.
Tutto lo spettacolo è costantemente accompagnato da una colonna sonora fatta di musiche dell’epoca, ma anche più moderne. Complicatissima la messa in scena, con immagini proiettate direttamente sui volti delle dive. Effetti che stordiscono, confondono, ipnotizzano e che creano questo ponte temporale tra due epoche così lontane che finiscono per intersecarsi, prendersi dolcemente per mano, o cozzare violentemente tra loro, continuamente.
Uno spettacolo scioccante, come scioccante è stato il modo di vivere di queste artiste dalla sessualità e dalla mentalità innovative, differenti, libere ma al contempo ingabbiate.
Una scrittura che dà voce a queste martiri del sistema benpensante e dell’industria cinematografica; una denuncia a quel sistema.
Quando appare alle spalle delle artiste un video con l’esplosione di una bomba atomica, la scritta che compare sotto le immagini è eloquente. La morte, la distruzione di Hollywood e di quel fittizio mondo dello spettacolo è giunto! Quel sistema che ha divorato e sfruttato fino al midollo, illudendo queste donne di raggiungere l’immortalità, ma trattandole come bambole di pezza e svuotandone le anime, è arrivato alla resa dei conti.
Questa è stata la mia interpretazione. In realtà il regista mi ha poi spiegato che “Hollywood ending” (la scritta che compariva sotto il fungo atomico), in gergo cinematografico significa finale hollywoodiano cioè lieto fine. Non è un momento drammatico ma ironico, quasi Kubrickiano.
Lo spettacolo mi ha colpito, come mi hanno colpito i caratteri sconosciuti di queste tre donne e l’istrionico Cecil, l’unico che sembra essere uscito incolume da ogni sofferenza. Hanno lasciato il segno le luci, la scenografia, gli effetti, gli abiti, la recitazione…
Una serata ipnotica con un forte impatto emotivo, fortemente trasgressiva, che certo non lascia indifferenti.