Remake del capolavoro di Howard Hawks, è una perfetta macchina spettacolare, dove ogni cosa è eccessiva. A cominciare dal titanismo esasperato del protagonista. Ritorna in sala il film del 1983
la recensione di Aldo Spiniello
Diciamocelo: l’impresa era disperata, ai limiti dell’impossibile.
Rifare sul grande schermo il capolavoro assoluto di Howard Hawks del 1931 si poteva considerare una follia, un atto di presunzione e tracontanza. Lo Scarface originale non solo è una lucida e “romantica” parabola di un personaggio “out of law”, di un fuorilegge sgradevole, ma a suo modo titanicamente affascinante, ma è anche, se non soprattutto, un’altissima dimostrazione di stile, di maestria registica.
E’ vero: più o meno contemporaneamente vengono girati altri film come Piccolo Cesare e Nemico pubblico, che danno il via al gangster-movie, ma solo Hawks riesce ad imprimere alla narrazione una dimensione tragica assoluta, grazie al taglio espressionista delle immagini, alla fluidità dei piani sequenza, al simbolismo inquietante (la croce), all’atmosfera morbosa e mortifera che avvolge ogni singola immagine.
Di fronte a questo modello, De Palma sceglie di puntare su quella che è la sua arma migliore: una perizia tecnica combinata ad un senso dello spettacolo fuori dal comune.
Il suo cinema non ha paura di andare “oltre”, di essere smisurato come i sogni dei suoi protagonisti.
E così il suo Scarface è una perfetta macchina spettacolare che tiene incollati allo schermo per quasi tre ore. Tutto è portato all’estremo: la violenza a dir poco efferata, l’emotività schizofrenica dei personaggi, lo stile ipertrofico, che alterna ritmi serrati alla dilatazione temporale (secondo la lezione di Peckinpah).
Il protagonista, seppur con sfumature diverse, è sostanzialmente lo stesso: sia l’italoamericano Tony Camonte/Paul Muni che il rifugiato cubano Tony Montana/Al Pacino tentano la scalata al potere, l’uno all’epoca del proibizionismo, l’altro nel mondo del narcotraffico.
Ma mossi da un’ambizione smodata, finiscono entrambi per cadere sotto il peso delle loro tendenze autodistruttive. Quell’attrazione incestuosa tra il gangster e la sorella, che Hawks era stato costretto ad attenuare, per ragioni censorie, viene resa più esplicita da De Palma, perdendo, purtroppo, parte della sua ambiguità morbosa.
Ma la scelta ha un senso: De Palma, ancor più di Hawks, vuole ragionare sulla follia e la malattia connaturate al potere. Se Tony Camonte si esalta, guardando l’insegna “The World is yours”, Tony Montana afferma già “The World is Mine”.
Ma si sa che nella realtà l’assoluto è irraggiungibile. Non gli resta che soccombere…anche se un titano non potrà mai morire come un uomo qualunque…
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