Santa Maria dell’orazione

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Si trova in via Giulia nel rione Regola, tra l’Arco Farnese e Palazzo Falconieri. La chiesa è stata chiusa per molti anni a seguito di lunghi restauri, ora finalmente è visitabile dal pubblico ed ospita anche le tradizionali funzioni religiose.

Fu eretta dalla Compagnia dell’Orazione e della Morte nel 1537 insieme al suo piccolo oratorio. Essendo di dimensioni ridotte, la chiesa fu ampliata nel 1737 da Ferdinando Fuga, architetto molto attivo sia a Roma, che a Napoli. In seguito venne consacrata sotto i titoli del SS. Crocifisso e della Beata Vergine da Cristoforo d’Almeida, arcivescovo di Perge.

L’interno è a pianta ovale, presenta diverse opere tra cui decorazioni che rimandano alla vita post mortem. Anche la cupola interna è ovale e particolarmente suggestiva, presenta un susseguirsi di forme concave e convesse.

Tra le varie decorazioni si trovano gli affreschi di Giovanni Lanfranco che raffigurano gli eremiti Sant’Antonio Abate, San Paolo di Tebe e San Simeone Stilita, precedentemente posti nel Romitorio del cardinale Farnese, poi la pala Seicentesca dell’altare maggiore che raffigura Gesù sulla croce ad opera di Ciro Ferri.

La facciata esterna Settecentesca è decorata con festoni, lesene, teschi e altri simboli macabri come due targhe graffite in cui in una è raffigurato uno scheletro alato con la scritta Hodie mihi, cras tibi, ovvero: “Oggi a me, domani a te”, l’altra raffigura la morte seduta che tiene una clessidra alata in mano ed osserva un uomo morente.

L’Arciconfraternita dell’Orazione e della Morte era un gruppo di volontari mossi da pietà e carità cristiana, che avevano come scopo quello di dare degna sepoltura ai morti trovati in campagna o annegati nel Tevere.

Corpi senza identità, spesso di poveri i cui familiari non potevano certo permettersi di dare loro degne esequie, morti assassinati, o per incidenti, affogati, o morti di stenti, di malattie, o a causa della peste.

Questi confratelli si impegnavano a portare a spalla i corpi ritrovati dentro e fuori le mura, verso i luoghi di sepoltura, o delle loro parrocchie quando riconosciuti.

Avevano la bocca coperta da un panno probabilmente impregnato di sostanze odorose per contrastare l’odore acre dei corpi in decomposizione, che trasportavano con apposite lettighe (conservate nella cripta).

Vestivano un saio nero legato sui fianchi con un crime nero e indossavano un cappuccio che gli copriva interamente il volto con solo due fori per gli occhi.

Essendo dei volontari che operavano per semplice carità cristiana, la loro opera doveva rimanere anonima per evitare che potessero inorgoglirsi attraverso i loro atti accrescendo il loro ego.

Da questa e altre confraternite erroneamente si è pensato che anche il boia indossasse un cappuccio simile durante le esecuzioni. Cosa assolutamente falsa, perché al contrario, il boia rappresentava la giustizia e doveva agire a viso scoperto ed essere ben riconoscibile come rappresentante di questa.

Oltre alla chiesa, vennero costruiti un oratorio e un vasto cimitero, in parte sotterraneo ed in parte posto sulle rive del Tevere, in seguito il secondo andò quasi completamente distrutto nel 1886, per realizzare dei muraglioni che impedissero le frequenti esondazioni del Tevere.

Nella cripta c’è ancora una targa che riporta l’impressionante livello raggiunto dalle acque del fiume prima della loro edificazione.

Il cimitero rimase in funzione fino all’ Ottocento accogliendo oltre 8.000 corpi. Ancora oggi è possibile vedere ossa e scheletri utilizzati per formare decorazioni artistiche come croci, sculture e lampadari.

Alcune teche conservano numerosi teschi, di cui alcuni riportano incisa sulla fronte l’anno di morte, la causa del decesso e il luogo del ritrovamento.

Questa particolare esposizione delle ossa così come nella chiesa dei Cappuccini a via Veneto, va letta non come una profanazione, bensì una valorizzazione dei resti umani. Un po’ come accadeva con la Danza macabra illustrata nel medioevo, dove i vivi spensieratamente danzano con degli scheletri.

Qui si vuole raffigurare la normalità della morte come semplice fine del ciclo biologico dell’essere vivente e, attraverso un neanche troppo velato monito, avvicinarlo alla spiritualità a Dio e alla chiesa.

Immaginiamo poi che all’epoca trovare un cadavere per strada fosse una cosa piuttosto normale, quotidiana, dunque perché non convivere e sfatare l’aspetto più macabro della morte, trasformandolo in arte che lo conservi nei secoli avvenire se non in eterno come la stessa anima che ha abitato quel corpo?

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