Teatro Cometa Off
scritto da Licia Amendola e Simone Guarany
con Leonardo Bocci, Matteo Cirillo e Simone Guarany
Regia di Licia Amendola
con la partecipazione in voce fuori campo di Giorgio Gobbi
Aiuto Regia : Giulia Bornacin Assitente alla Regia Filippo Gentile, Scenografia, Francesca Meloni,
Costumi Jenni Altamura, Musiche/Effetti Simone Martino, Disegno Luci Giulia Bornacin e Licia Amendola
La sala è tetra come l’argomento che andremo ad affrontare. Una buona regia, effetti luce e suoni di sottofondo amplificano l’atmosfera inquietante.
La scenografia occupa tutta l’area del palco, ci sono due scrivanie dove prenderanno posto due guardie penitenziarie, dietro di loro delle sbarre e dentro il misero e scialbo occorrente per ospitare un detenuto in arrivo. Un water, un letto, un mobiletto…
Quello che sta per giungere è un prigioniero particolare, perché è il primo dopo 70 anni in Italia a scontare la pena con una condanna a morte.
La proposta, attraverso un testo dinamico e molto realistico, mette a confronto due guardie penitenziarie del carcere di Rebibbia, gli stessi che saranno gli esecutori materiali della condanna. I due hanno caratteri estremamente diversi che rispecchiano due opposti punti di vista: quelli della gente comune.
Leonardo è un tipo gretto che pensa solo al calcio, di cultura medio bassa con di tendenze destrorse. È un uomo frustrato a causa delle problematiche matrimoniali che lo affliggono e visto il comportamento rozzo e superficiale, non si fa fatica a capire che in buona parte sia il responsabile della propria infelicità. Apertamente, dimostra di essere favorevole alla condanna a morte come al carcere punitivo e tende a disumanizzare i detenuti.
Matteo, al contrario, è una persona più mite ed introspettiva, tendenzialmente sinistroide che non crede assolutamente alla validità del carcere punitivo, tantomeno è convinto che la condanna a morte possa essere una soluzione ai mali della società, ma è pronto a fare il suo dovere asservito ai poteri forti.
I due si troveranno più volte faccia a faccia e nonostante siano legati da una certa amicizia, discuteranno animatamente, facendo emergere frustrazioni, sogni infranti, difficoltà personali, familiari e sociali che riempiono i loro botta e risposta continui e verosimili. Gli stessi che spesso prendono vita tra colleghi di lavoro o amici, insomma. Un prodotto ben confezionato, questo spettacolo, ben interpretato e scritto e che riesce a coinvolgere lo spettatore.
Conosco molto bene Matteo Cirillo e Leonardo Bocci. Sono due comici strepitosi, di quelli che ti fanno ridere tantissimo. In questa parte drammatica hanno superato a pieni voti la sfida, e nonostante i loro ruoli, non hanno disdegnato di inserire la loro indole ironica, le battute, l’ espressività che li contraddistinguono e che ho sempre apprezzato. La scelta registica e la loro verve ammorbidiscono il tema senza rompere l’atmosfera fortemente drammatica che circonda la storia.
Ma perché il titolo “Petricore”? Petricore, o anche “geosmina”, è l’odore che il terreno emana dopo la pioggia. Si tratta quindi di un’ analogia con la libertà che il nostro detenuto Simone, ormai relegato nella sua angusta cella, non può più apprezzare.
La proposta spinge molto su dialoghi spesso provocatori e crudi tra le guardie, con l’intento di far riflettere su questa pena così orribile ancora presente nel mondo. Si dà voce a tutte le false sicurezze piuttosto labili e anche alle perplessità che circondano questo argomento.
Simone (per me un nuovo artista), è nei panni del condannato, accusato di un crimine talmente terribile da non essere mai esplicitato durante lo spettacolo. Matteo e Lorenzo dovranno occuparsi di lui e mettere in atto la condanna con un iniezione letale. Anche i motivi che inducono Matteo, come capo reparto, ad offrirsi volontario per l’esecuzione, sono molto forti, umani e conflittuali…
Nonostante la chiara presa di posizione dei due, con il trascorrere del tempo in attesa della data dell’esecuzione qualcosa cambierà. I mesi che passano vengono scanditi da bui soffocanti che si posizionano tra una scena e l’altra, accompagnati da inquietanti rumori di catene, di porte che cigolano e sbattono. Intanto nei due affiorerà il dubbio: e se si trattasse di un errore giudiziario?
Ci si potrebbe trovare a giustiziare un innocente… Così, entrambi inizieranno a vacillare e a farsi più di qualche scrupolo, ma ahimè sembrano aver imboccato una strada senza uscita. Vivremo la tensione fino all’ angoscia dei due.
Il testo di Petricore prevede che gli attori escano dalla sala, rompano la quarta parete e diano un effetto di continuità. Con l’allontanarsi, le loro voci continuano a sentirsi fuori scena. Quasi un effetto dolby surround. Una scelta suggestiva che rompe ogni forma di staticità. La porta che usano, poi, è la stessa da cui poco prima è entrato il pubblico. Una porta che a me è sembrata una sorta di potenziale via di fuga da questo purgatorio senza redenzione, da cui i protagonisti sembrano non voler o non poter sfuggire e che li ingoia nuovamente nel dramma.
La scrittura è vivace e gioca con molta ironia sul dramma di fondo in cui lo spettatore viene piano piano sempre più risucchiato ed invischiato.
Assisteremo ad una iniziale e normale forma di disumanizzazione del mostro seguita da una inaspettata e progressiva umanizzazione. Un lento e piacevole mutare della superficialità e del disprezzo dei due secondini verso il condannato come forma di difesa psicologica, fino alla creazione di un rapporto profondo ed umano.
Simone non è più il mostro, non è più identificato con il suo crimine, bensì matura un rapporto di mutuo scambio umano e a tratti anche empatico, efficacemente inserito nei soli settanta minuti di spettacolo con un crescendo ben strutturato.
Questo è un passaggio importante perché di fronte alle idee e alle convenzioni che ognuno dei due ha e in cui ognuno di noi può ritrovarsi, si arriverà alla fine a fare i conti con la parte più profonda del nostro animo e a chiederci: e se fossimo noi i parenti di chi ha subito l’orrendo crimine? Oppure: e se fossimo noi i parenti di un innocente giustiziato?
Verremo sballottati con tutti i nostri dubbi, mentre continuando a riflettere ci chiederemmo inevitabilmente se saremmo in grado di giustiziare qualcuno, soprattutto se colti da dubbi sulla sua colpevolezza.
Ma non è tutto qui, la pièce affronta anche il tema della mala giustizia e del giornalismo dalla notizia facile, quella dello “sbatti il mostro in copertina” per poi scoprire che il poveraccio é solo vittima di un errore… Una giustizia alla “Girolimoni” per capirci, quella che non vede l’ora di trovare un colpevole per tranquillizzare un’opinione pubblica affamata di una giustizia veloce, che forse cela una forma di vendetta perché la gente comune ha paura del mostro, quello che può colpire subdolamente chiunque e che va fermato con ogni mezzo, anche sbagliato.
Mentre scivoliamo sempre più nel dramma e in una profonda crisi riflessiva, ci troveremo improvvisamente ad essere testimoni diretti di questa esecuzione e a sentirci responsabili per non aver mosso un dito.
Il finale è davvero sorprendente ed originale, lasciando sbigottiti e perfino scioccati, dà spazio ad un ulteriore, intensa riflessione.
Matteo e Leonardo dimostrano tutta le loro capacità In questa Prima, Simone risulta più distaccato, sembra quasi impermeabile. Il suo ruolo è quello di instillare il dubbio sia nei suoi carcerieri che nel pubblico con un atteggiamento ambiguo, sottomesso e sfocato.
Il presunto colpevole si scoprirà una persona profonda, peraltro molto intelligente e chissà che anche questo non contribuisca a mettere in crisi i due agenti. D’altronde, è più facile condannare qualcuno che abbia un aspetto truce, modi incivili e violenti, che una persona rispondente ai canoni del mite Simone.
Alla fine, uscendo dalla sala si ha la sensazione di essere stati noi quelli messi sotto giudizio…
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