Nuovo Cinema Aquila
Con Pietro de Silva, Livio Beshir, Germano Gentile, Giada Foletto, Stefano Mondini, Claudia Razzi, Francesca Piersante, Irene Cannello, Leandro Sbrocchi, Cristina Bevilacqua, Jana M. Positano e Antony Rosa.
“A un seminario sul tema delle discriminazioni razziali, un gruppo di persone, convinte delle proprie idee, daranno luogo a una serie di conflitti.”
Questa è la stringata sinossi sul mediometraggio presentato al cinema Aquila questa sera. Se la sinossi risulta essenziale e vaga, la pellicola si rivela una perla rara e preziosa. Invece di un articolo bisognerebbe scrivere un libro o una tesi su questa opera, tanto è ricca di idee, tesi, simbolismi.
Meriterebbe inoltre di essere vista più volte, per cogliere ogni singola sfumatura e poi avere il tempo per metabolizzarla.
In essa è racchiuso un universo di emozioni, di sfaccettature, di brillanti trovate con cui vengono messi in luce e dissezionati luoghi comuni, atteggiamenti, idee, comportamenti in cui si annida il morbo del razzismo, descritto in maniera superba, sopraffine e profonda.
La proposta nasce per scuotere lo spettatore dal suo torpore di sicura persona corretta e indurlo a porsi mille domande. Riconoscerà se stesso, in certe dinamiche dei personaggi, interrogandosi sui propri comportamenti e mettendosi in discussione.
Portavoce del messaggio è un grandissimo Pietro De Silva nei panni di un professore relatore che tiene una conferenza sul razzismo.
Pietro è la naturalezza fatta persona; in questo filmato ho la sensazione di riconoscere l’uomo ancora prima dell’ attore, tanto riesce ad interpretare il ruolo assegnato con spontaneità, mettendoci sé stesso e facendo scorrere le idee e le parole come un fiume in piena.
La ricchezza dei concetti espressi e il continuo susseguirsi dei ragionamenti affascinano il pubblico e ne catturano l’attenzione a tal punto che si avverte il desiderio di rivedere il film una seconda volta, per essere certi di aver colto ogni sfumatura del ragionamento su cui poter porre l’attenzione.
È stupefacente la professionalità, la naturalezza, la spontaneità e soprattutto l’umanità di Pietro De Silva in questo ruolo.
Non da meno sono gli altri attori nei panni dei partecipanti al seminario. Ognuno rappresenta un carattere ben definito e facilmente identificabile in cui lo spettatore può riconoscersi.
Ognuno partecipa alla rappresentazione di uno spaccato della società: la ragazza che sembra uscita da un centro sociale, il colto professore, il libero professionista, il ragazzo e la ragazza di colore, la radical chic… Ce n’è per tutti i gusti.
Tra gli attori mi ha colpito molto Giada Foletto, che mai avrei immaginato di vedere in una parte così cruda e diretta dove sfodera un atteggiamento scettico, provocatorio e spocchioso. Entrerà in competizione con il relatore e si accapiglierà poi con Francesca Piersante, toccata sul vivo dall’argomento perché impersona una ragazza di colore.
La sceneggiatura si rivela davvero forte ed originale perché riesce a far entrare lo spettatore nell’animo del discriminato e a fargli provare le stesse sensazioni, grazie ai messaggi veicolati dal relatore.
La sensazione è che i personaggi gradualmente si sentano sempre più impigliati in una ragnatela dove si muovono come mosche catturate, nella ricerca disperata di liberarsi dall’accusa di razzismo.
La pellicola ha una predominanza di colori scuri, direi caravaggeschi, che giocano sapientemente con inquadrature e luci per sposare il tema trattato e i suoi toni drammatici.
Con un tocco di classe, per sottolineare il momento topico in cui una persona bianca si scontra verbalmente con una di colore, la regia sceglie di girare la scena in bianco e nero.
L’assenza di colore, le due tonalità opposte che però, come lo yin e lo yang, sono complementari tra loro, indissolubili.
In questo contrasto non posso non leggervi un’allusione, forse tutta mia, ad una velata speranza, che forse si concretizzerà presso le nuove generazioni con il tempo, quando tutti saranno capaci di non badare alle differenze di pelle ma di identificare una persona in base al suo nome, semplicemente, senza correre il rischio di utilizzare termini “buonisti” che finiscono per evidenziare lo stesso le diversità fisiche.
Il cast funziona egregiamente, tutti dimostrano di entrare nel personaggio e viverlo in prima persona.
Il mediometraggio è stato girato all’interno del Teatro Trastevere, luogo al quale sono molto affezionato e che frequento spesso, spazio perfetto che riprende i colori che ne caratterizzano gli spazi. Il resto lo fanno le inquadrature che cercano dettagli nelle espressioni, nelle mani nervose che si strofinano, nel piede che batte ansioso, negli oggetti.
È tutto molto suggestivo.
La supremazia dei bianchi esiste perché un sistema culturale, economico e sociale occidentale, in piedi da qualche secolo, l’ha costruita ad hoc, e si nutre ai danni del “diverso”, rendendolo un capro espiatorio dei mali della società.
La chiave sta nel presentare e nel far sentire inferiore, dannosa, pericolosa una minoranza per ghettizzarla, indicandola come l’origine di ogni male, attribuendogli ogni colpa ed identificandola attraverso caratteristiche fisiche diverse dalle nostre.
La spaccatura che si crea all’interno della società rende più semplice il controllo degli esseri umani.
Quando si crea un gruppo predominante, automaticamente ne serve uno minoritario e fragile da schiacciare, da poter ghettizzare, per far sì che il predominante prevalga.
La sceneggiatura molto intelligente inserisce una figura che i partecipanti non vedranno mai: è una specie di uomo dei bottoni che ha in mano tutto e controlla ciò che accade. Supervisiona tutto, commenta, sorride, ammicca.
Sembra un moderno Mangiafuoco di Pinocchio che con fili invisibili muove le vittime sacrificali in un gioco al massacro in cui ognuno scopre, passando attraverso forti emozioni, i propri scheletri nell’armadio, la propria immagine riflessa in cui si annida ed prospera il razzismo.
Ironia della sorte, l’uomo nella sala dei bottoni è di colore: stavolta è lui l’essere supremo che gioca con le vite e i sentimenti di tutti mettendoli a nudo, confondendoli e provocandoli attraverso il suo geniale professore. Una vera e propria provocazione alla potenza bianca.
Canova è geniale, sfrutta tutte le frecce del suo arco per far arrivare il messaggio in modo diretto attraverso chiare esposizioni, in modo indiretto sfruttando le espressioni dei vari personaggi.
Interessante anche l’incontro, a fine spettacolo, con il cast, utile per conoscere alcuni aspetti del dietro le quinte. Interessante anche sapere dagli attori quanto siano stati coinvolti in quello che, in fin dei conti, sembra essere stato un esperimento sociale che li ha visti persone oltre che artisti.
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