I “puristi” di De André hanno gridato allo scandalo.
Al complotto romanocentrico. Un’operazione “riuscita a metà” o, addirittura, neanche quella, da alcuni addirittura non apprezzata affatto. Rimproverano principalmente al regista Luca Facchini (autore milanese classe ‘69) che il suo biopic su De Andrè non abbia rispettato l’anima genovese del poeta e cantautore, con uno stile del racconto “superficiale” e, a tratti, grossolano e sbrigativo.
La verità è che al regista Facchini, da 7 anni alle prese con questa storia, tutto potete dire tranne di non aver studiato la materia. Si tratta di un “deandreiano” tanto quanto voi che ha dovuto mettere da parte la sua eccessiva passione per poter raccontare una storia, fedele e appassionante. In questi casi essere fan esasperati potrebbe giocare uno scherzo involontario. Il “troppo amore” avrebbe potuto portare Facchini e troupe a realizzare un’opera ridondante, con troppa roba dentro. E quindi sbagliata. Perché De André era tutto fuorché barocco, pieno, tondo. Era perfettamente imperfetto, lieve, dolce nella sua brutalità e feroce nella sua anarchia. E questo nel film c’è.
I social sono impetuosi e impertinenti, croce e delizia della modernità: chiunque ha la possibilità di lasciare traccia e così, nel modo più democratico del mondo, ecco tanti applausi così come decine di nasi storti, di “io avrei fatto così…” o perfino sonore bocciature.
A me, che di De André sono solo un semplice ammiratore e non un fan militante, il film è piaciuto molto. Sono solo 20 anni che mi occupo di cinema ed effettivamente non stiamo parlando di “C’era una volta in America” che, come affresco di un’epoca, è senza dubbio migliore. Ma io davanti a questo “Principe Libero” di Luca & Luca (Facchini e Marinelli) mi tolgo il cappello, e cerco di capire perché mi sia piaciuto anziché il contrario. Perché distruggere è più facile, perché costruire, perché da zero a uno e poi due, tre e cento, è difficilissimo.
Ed io sostengo chi rischia la figuraccia, ma che nel dubbio si sporca le mani. Perché quando ti cimenti con qualcosa o qualcuno di realmente esistito sei un pazzo che ha tutto da perdere. O fai un documentario cronistorico o, se scegli la strada dell’arte, dell’interpretazione, della fiction, hai già incasellato l’operazione in un “settore” nel quale posizionare il racconto, costretto ad un linguaggio con delle regole. Con la clessidra del Tempo a scandire i battiti. Dentro e non oltre quelle 3 ore e mezzo che forse solo una spada di Damocle è più pericolosa. Come si fa a raccontare un Uomo, e tutto ciò che aveva intorno, in un tempo così stretto senza dover per forza omettere, passare in superficie, toccare appena o non toccare affatto?
Nel film ci sono decine di cose di De André: l’alcolismo, il rapporto difficile con il figlio Cristiano, l’amore per i vicoli di Genova, Bocca di Rosa e Marinella, il rapporto d’amore e di rabbia con la sua prima moglie (bravissima l’attrice Elena Radonicich, così come tutto il resto del cast). C’è il rapimento (da cui Hotel Supramonte…), c’è tanta Dori Ghezzi, c’è tanto Paolo Villaggio, c’è Tenco quanto basta, c’è la passione per il Genoa calcio in una scena, c’è Mina e ci sono un’altra decine di cose molto buone che ne hanno decretato il grande successo, dapprima cinematografico, e poi sul piccolo schermo, con il 25% di share e oltre 6 milioni di telespettatori a puntata (andate in onda lo scorso 13 e 14 febbraio, battendo tutti, Isola dei Famosi in primis, e già questa è un bella notizia).
Un film incentrato sull’attore Luca Marinelli reo, prima di questa epica biografica, di essere stato il coatto “zingaro” in “Lo chiamavano Jeeg Robot” di Gabriele Mainetti, con tanto di parodie che da due anni corrono sul web (“Io solo una cosa vojo sapè…” e via con le battute). Il successo popolare di quel personaggio per un film modesto fin troppo idolatrato (con Santamaria eroe di Torbella), pare abbia marchiato indelebilmente Marinelli. Quasi fosse un’onta. Ed ecco che, ad una lettura superficiale, Marinelli-De André è per molti “lo zingaro” che gigioneggia, imitando Faber. Niente di più sbagliato e di semplicistico, proprio perché Marinelli – strepitoso – non imita nessuno ma interpreta, canzoni comprese, e semmai reinterpreta a modo suo. Ne dà una chiave di lettura, cercando di arrivare all’essenza. Un po’ come Elio Germano ha fatto per Leopardi e molto meglio, se proprio dobbiamo giocare ai paragoni, del Santamaria-Rino Gaetano. Luca & Luca hanno restituito al pubblico un sapore, un colore, un’emozione.
Ecco perché “Il Principe Libero” è stato un gran film: perché tutti, dal regista al resto della comitiva, hanno deciso di rischiare. Potevano fare un film più facile o non farlo affatto. Il Bardo scriveva per bocca di Giulietta: “Una rosa profumerebbe lo stesso anche se si chiamasse in altro nome”. Ammesso che abbia avuto l’accento di Ostia, Fabrizio De André è stato omaggiato ed è arrivato al grande pubblico. Il teatro di Peter Brook mette in scena attori aborigeni africani per fare Shakespeare, l’arte concettuale parla del presente spesso senza forme, colori o materia, e i grandi chef usano sfidare sé stessi per giungere all’idea, alla qualità eccelsa, all’essenza. Un autore mette il suo zampino cercando il sapore. Altrimenti ci sono i documentari e le interviste originali, oltre ai brani. Un film è una grande licenza poetica. Ed è un bene che sia stato fatto. Ed è anche un bene stare ora qui a parlarne.
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