Il 6 novembre è uscito per Hoepli il nuovo libro di EZIO GUAITAMACCHI “AMORE, MORTE E ROCK ‘N’ ROLL” – LE ULTIME ORE DI 50 ROCKSTAR: RETROSCENA E MISTERI.
Prefazioni di ENRICO RUGGERI e di PAMELA DES BARRES, una delle groupie più iconiche negli anni Sessanta e Settanta, il libro racconta come le ultime ore di vita di cinquanta rockstar siano spesso intrecciate ai loro grandi affetti e come la mancanza dei medesimi possa essere, a volte, un killer più spietato del fentanyl.
Per questo l’opera raggruppa per tipologia di “crimine” gli ultimi momenti di diverse leggende della musica, passando dalla morte di Leonard Cohen a quella di David Bowie, corredando ogni storia con immagini d’archivio, box di approfondimento, citazioni e canzoni che fanno da “colonne sonore” ai racconti.
Come nasce l’idea di un libro che racconta gli ultimi momenti di vita delle più grandi rockstar mai esistite?
L’idea di questo libro nasce più di 10 anni fa quando avevo sviluppato un altro progetto che si chiamava “Delitti Rock”, un libro dal quale, poi, è stato realizzato un programma televisivo per RAI2 di dieci puntante, un programma per la radio svizzera italiana e uno spettacolo teatrale. Era un modo diverso, rispetto ad Amore, morte e Rock n roll, di affrontare la scomparsa delle grandi star della musica.
Amore, morte e rock n roll nasce, intanto, dalla mia volontà di ritornare sulla “scena del crimine”, perchè l’attualità ci presenta, purtroppo, pessime notizie molte delle quali riguardano la dipartita di personaggi a noi molto cari, di vere leggende della musica, dell’arte e della cultura del secolo scorso, e poi perchè ho inserito, oltre alla parte relativa “all’indagine” sulla morte di questi personaggi, il concetto dell’amore.
Ho scoperto che non solo la morte, come raccontava Laurie Anderson, è un modo per capire, per renderci conto di quanto amore abbiamo provato per la persona che se ne è andata, ma anche le grandi storie d’amore o, al contrario, l’assenza totale dell’amore che troviamo dietro a queste vicende, sono fattori importanti per capirne la personalità e per raccontarne le storie che sono altrettanto affascinanti e straordinarie di quanto lo sono state le vite e le opere stesse.
David Bowie: la sua scenografica uscita di scena con la pubblicazione di un album testamento, ma che ha anche generato una importante operazione di marketing. Una rara lucidità di una persona che ha sempre stupito fino alla fine. Un commento al riguardo.
Nel mio precedente libro che si chiamava “Rock e Arte” ho spesso indicato David Bowie come il personaggio più emblematico di questo binomio, cioè un musicista, e non solo, capace quasi di trasformare sé stesso in un’opera d’arte. Ecco, Bowie è riuscito nell’impresa veramente eccezionale quasi di mettere in scena, in modo artistico, anche la propria morte.
La sua malattia è stata tenuta nascosta quasi a tutti, ne erano a conoscenza solo le pochissime persone che hanno lavorato con lui nell’ultimo periodo, la moglie, la figlia e i famigliari. Non è mai trapelato nulla se non il fatto che, qualche mese prima, recandomi nel villaggio di Woodstock, nei pressi di New York, sede del grande festival rock della storia, un amico mi raccontò che Bowie aveva preso casa lì e che però era un po’ che non si vedeva in giro e si diceva, appunto, che fosse malato.
E’ riuscito a tenere nascosto, per un personaggio pubblico come lui, il suo problema presentandosi, anche con grande coraggio, alla prima del musical “Lazarus” che era, in qualche modo, anche la rappresentazione dei contenuti del suo ultimo lavoro “Black Star” e poi perchè ha fatto un album in cui si confronta direttamente con l’ultima parte della sua vita, addirittura con la morte. Il video di “Lazarus”, visto a posteriori, è ancora più agghiacciante.
Lo stesso Bowie è riuscito, lui l’uomo delle stelle, a realizzare un progetto chiamato “Black Star”, appunto “Stella Nera”, che in qualche modo profetizzava e anticipava il finale.
Un finale assolutamente teatrale non tanto nei modi quanto nella messa in scena dell’insieme che lo conferma un personaggio unico nel panorama artistico del secolo scorso.
Mark David Chapman ha ucciso John Lennon solo per avere i riflettori puntati o secondo te c’è dell’altro?
Mark David Chapman, da quel che so, sia nell’infanzia che nell’adolescenza, già manifestava turbe psichiche. Era, quindi, un soggetto che, forse, avrebbe dovuto essere curato.
Questo è stato il vero problema di Mark David Chapman, non credo che ci sia molto altro dietro.
La sua ossessione per John Lennon, o per qualsiasi altro artista lui avesse in mente di uccidere, era soprattutto dovuta a questa sua instabilità dal punto di vista psichico.
Un’instabilità che, come per tutte le persone che soffrono di queste patologie, era accompagnata da una lucidità programmatica, da una capacità di organizzare un delitto studiato nei minimi dettagli.
Non credo assolutamente a ipotesi complottistiche o che lui fu usato a scopo politico dalla CIA o dall’FBI che peraltro indagava, questo è provato, sulle attività di John Lennon perchè in quel periodo era un personaggio scomodo soprattutto per l’opinione pubblica americana e per chi cercava di controllarla.
Quindi, non credo che ci sia lo zampino dei servizi segreti americani dietro l’omicidio di John Lennon.
In questo caso credo che Chapman abbia agito per conto suo in virtù di una instabilità cronica e di una malattia psichiatrica.
La tua opinione sui retroscena relativi alla morte di George Michael e sulla responsabilità del compagno riguardo alla mancata tempestività dei soccorsi.
Non credo che nella vicenda di George Michael ci siano grandi responsabilità del compagno con il quale, peraltro, non ebbe un grandissimo amore.
Ci fu questo grande litigio e sicuramente, mettendomi nei panni di questo signore, posso immaginare il grandissimo senso di colpa per aver avuto un forte litigio, tra l’altro il giorno prima di Natale, e non aver potuto essere vicino alla persona a cui voleva bene o alla quale, si suppone, volesse bene.
Credo che i problemi di George Michael abbiano un’origine lontana e l’assunzione di sostanze varie, oltre a problemi psicologici, alla pressione che ebbe negli ultimi anni, al fatto che finisse sotto i riflettori tutta la sua vita privata e tutta la sua vita professionale, hanno lentamente logorato il suo fisico del quale, anche a vedere le fotografie, si occupava ben poco lui che aveva sempre fatto dell’immagine un punto di forza della sua attività professionale.
Quindi, tenderei a scagionarlo però non sono un giornalista investigativo o un criminologo, mi occupo di musica e racconto storie e quella di George Michael è una storia incredibile per via delle enormi coincidenze, per via del fatto che una persona che per anni ci aveva deliziato cantando “Last Christmas I gave you my heart” finisce per morire, appunto, di attacco cardiaco il giorno di Natale.
Così come un paio di anni dopo, sempre il giorno di Natale, anche una delle sue amate sorelle muore. Quindi, una serie di coincidenze e di fatti che veramente dipingono a tinte più forti il finale della vita di George Michael.
Freddie Mercury: la confessione della sua sieropositività a pochi giorni della morte avrebbe potuto compromettere la sua carriera a sua insaputa visti gli effetti che inaspettatamente avrebbe potuto generare in quel particolare momento storico. Perchè secondo te l’ha fatto?
Io credo che Freddie Mercury abbia deciso di confessarsi quando ormai aveva capito che gli era rimasto poco tempo da vivere. Forse, come scrivo anche nel racconto, per quello che mi è stato a mia volta raccontato, nessuno si aspettava una dipartita così veloce.
Lui, che sapeva della sua sieropositività da tempo, decide di renderla pubblica attraverso un comunicato stampa alla fine dei suoi giorni. Non possiamo dimenticare, stiamo parlando di quasi 30 anni fa, l’AIDS era visto ben peggio di come oggi vediamo il Coronavirus, era una malattia che ti bollava anche dal punto di vista morale per via della tipologia di contagio, per via della categoria che era maggiormente colpita e cioè gli omosessuali.
Quindi, Freddie Mercury credo che proprio per questo motivo abbia voluto tenere nascosta il più possibile la sua malattia, fino agli ultimi giorni.
Io credo che, semmai, è proprio il contrario di quello che dici tu. Lui ha voluto nascondersi non tanto per non compromettere la sua carriera, quanto per evitare che quella notizia offuscasse o prendesse il posto di quelle che invece erano le cose a cui aveva sempre maggiormente tenuto: la sua arte e la sua musica.
Amy Winehouse: ancora oggi non è chiara la causa della morte. Secondo te il padre che ruolo ha giocato nell’epilogo della vita dell’artista?
In realtà le cause della morte di Amy Winehouse non è che siano poco chiare.
Io ne ho parlato lungamente con persone esperte, e non per fare il criminologo, non lo sono e non lo voglio essere, ma giusto per smentire qualche tesi che era stata, peraltro, proprio portata sulle pagine dei giornali dai genitori e, in particolare, dal padre che sosteneva che Amy Winehouse fosse morta per una sorta di crisi di astinenza cosa che, studiosi della materia, hanno detto fosse sostanzialmente impossibile, specie in un personaggio dell’età di Amy Winehouse.
E’ molto più probabile, invece, come capita per i tossicodipendenti di varia natura, che dopo un periodo di sobrietà la ripresa, magari in maniera sconsiderata di sostanze, in questo caso di alcol, possa portare a un crash del proprio fisico, come credo sia successo ad Amy perchè negli ultimissimi giorni è stato testimoniato che lei avesse ripreso a bere in maniera forsennata.
Al di là di ciò il ruolo del padre non so quanto abbia influito dal punto di vista reale, ma dal punto di vista morale è stato, per quello che posso dire io, un comportamento certo non edificante.
Te lo posso testimoniare in prima persona proprio perchè, parlando di quel programma televisivo di cui ti facevo cenno “Delitti Rock”, la RAI mi incaricò di fare una puntata in più proprio alla luce della morte di Amy Winehouse nel luglio del 2011, per cui quando dovetti fare le ricerche per quella puntata eravamo nel pieno dell’inchiesta dove non c’erano ancora state soluzioni e tutte le persone che volevo intervistare sostanzialmente mi dissero di no scoprendo, solo dopo, che erano state messe tutte sotto contratto da Mitch Winehouse, il papà di Amy, che poi se ne sarebbe uscito con il suo libro, con il suo documentario e con il controverso album postumo.
Questa è una cosa che capita abbastanza abitualmente nel mondo delle rock star defunte perchè i famigliari, o chi detiene i diritti, incaricano poi delle persone che gestiscono un po’ il patrimonio artistico e quindi tendono, devo dire giustamente, poi a mantenere loro il controllo delle varie operazioni.
Però nel caso del padre mi è sembrata abbastanza prematura tutta questa cura nel fermare i vari personaggi da Mark Ronson in giù offrendo loro dei contratti in esclusiva e impedendogli di rilasciare dichiarazioni.
Questo veramente nel caso di chiunque tra cui il tizio, di cui adesso mi sfugge il nome, che era proprietario del pub di Camden in cui Amy spesso andava, anche divertendosi, a spillare le birre. Tenendo conto che Camden o Londra in questi anni hanno un numero di italiani enorme in un programma sulla RAI ha fatto anche molta pubblicità al tizio del pub.
Questo per dirti come la penso io sulla vicenda e sul fatto che Mitch Winehouse (che peraltro è un appassionato di musica, anzi pare che lui nel momento in cui lei stava morendo fosse a New York a promuovere il proprio disco di Jazz o presunto tale) abbia avuto un comportamento moralmente quanto meno discutibile.
Che idea ti sei fatto della “maledizione del 27” che ha condannato dei geni assoluti. Cosa succede a 27 anni?
A 27 anni non succede niente. Sono diverse poi le valutazioni che puoi fare di personaggi come il bluesman Robert Johnson di cui io parlo nel libro e che è il capostipite del club della “J” 27, perchè oltre al 27 c’è anche una “J”.
I veri membri di questo famigerato club hanno tutti una “J” nel nome e muoiono tutti a 27 anni.
Però un conto è morire a 27 anni nel 1938 come Robert Johnson, nel 1969 come Brian Jones, nel 1970 come Jimi Hendrix o Janis Joplin, o nel 1971 come Jim Morrison perchè in quegli anni, a parte il caso di Robert Johnson che è stato avvelenato, le droghe giocano un ruolo fondamentale anche se la morte di Brian Jones e quella di tutte queste star è ancora avvolta nel mistero con probabili retroscena che non verranno mai, credo, chiariti. Però, in ogni caso, anche Brian era un personaggio molto controverso, un ragazzo pieno di problemi, un ragazzo che faceva abitualmente uso di droga.
Quindi, in quegli anni, specie alla fine degli anni ’60 e inizio ’70 non c’era la percezione del pericolo che certe sostanze provocavano. Pericolo non soltanto di instabilità psicologica e psichica, ma proprio di addiction forte, di ripercussioni sul fisico anche di una persona giovane.
Tieni conto che i 27 anni degli anni ’60 sono un po’ diversi dai 27 anni di oggi. Anagraficamente e fisiologicamente siamo sempre nell’ambito di persone giovani, però diciamo che i 27 anni degli anni ’60 potrebbero essere paragonati ai 37 anni di oggi.
In quel caso, poi, erano personaggi che a quell’età avevano già raggiunto un successo stratosferico ed erano già delle vere e proprie leggende.
Il caso di Kurt Cobain, che non ha una “J” nel nome, ma muore a 27 anni, o Amy WineHouse, che aveva la J nel middle name perchè si chiamava Amy Jade Winehouse, entrambi morti a 27 anni ed entrambi vittime di abusi di sostanze (anche se nel caso di Kurt c’è questo vero o presunto suicidio di mezzo) sono casi molto più gravi.
Nelle storie che racconto nel libro di questi personaggi, al contrario di molti altri, l’amore era quasi totalmente assente. Erano persone sole con un vuoto enorme dal punto di vista sentimentale che nessuno era in grado di riempire e quindi le sostanze unite alla difficoltà di gestione, scrive bene Enrico Ruggeri nella prefazione del libro, la gestione del successo di questo trionfo pubblico ma che spesso nasconde un fallimento privato, porta a una difficoltà di trovare un equilibrio.
Le sostanze, quindi, sono una sorta di falsa panacea di tutti i mali perchè poi in realtà spingono la persona, dal punto di vista psicologico e psichico, verso una deriva che il proprio fisico non riesce più a reggere.
I misteri che scaturiscono dalla morte di tanti personaggi descritti nel libro sono frutto della fantasia di chi rimane o c’è del vero?
Le morti di questi personaggi hanno spesso fatto nascere tante leggende, ma perchè erano personaggi talmente amati, talmente riveriti, talmente sul tetto del mondo che noi appassionati non vogliamo credere che non ci siano più. Quindi, ci immaginiamo, da una parte, che la loro morte sia un falso e che siano vecchietti su un’isola tropicale perchè, per scelta, hanno deciso di togliersi dalla luce dei riflettori, oppure che siano state ricamate molte altre cose perchè qualcuno non accetta una morte che non è socialmente accettabile e quindi si inventa o pensa che ci siano dietro dei complotti.
Oppure, ancora, c’è chi tenta di fare di queste cose un proprio business. Sono venute fuori negli ultimi anni verità alternative sulle morti per es. di Jim Morrison o di Jimi Hendrix come io racconto nel libro, peraltro, che però sono anche difficili da smentire perchè, a distanza di tanti anni, la maggior parte dei protagonisti non ci sono più e se un personaggio obiettivamente era parte di quell’entourage o comunque parte di quella scena te la ri-racconta in un modo tale che, considerando degli elementi oggettivi, riesce a inserire uno spiraglio diverso che, appunto, non si può più controbattere.
In alcuni casi, come quello di Jim Morrison, che lui sia morto nel bagno di un locale parigino o nel bagno dell’appartamento di casa sua cambia abbastanza poco. Cambia il fatto che nel primo caso sia morto di eroina (sostanza che lui detestava, me l’hanno detto tutti i suoi amici che lo conoscevano bene) presa da uno spacciatore per conto della sua fidanzata, secondo me è una cosa poco credibile. E’ più credibile che la fidanzata stessa, come raccontano le tesi ufficiali della morte, l’abbia ingannato dicendogli che quella che lei stava sniffando fosse cocaina e non eroina e lui, fidandosi, l’ha fatto anche lui.
Quindi in questo caso c’è una differenza lieve, nel caso di Jimi Hendrix è molto diverso perchè questo simpatico ex roadie Manager Tappy Wright ha raccontato che a decidere è stato il manager di Hendrix e quindi è stato un caso di omicidio non un caso di morte accidentale dovuta a una serie di circostanze tra le quali la mancata assistenza della sua giovane fidanzata tedesca.
Così come le ipotesi complottistiche che ci sono dietro a tante altre morti.
Io come già detto non sono un criminologo, io racconto storie appassionanti, spero, sicuramente raccontate da me in modo appassionato e che fanno luce anche sulle caratteristiche, sull’attitudine, sulla personalità di questi grandi artisti che anche nel momento della morte ci hanno lasciato una traccia indelebile, ma che hanno anche creato, soprattutto quelli morti in età prematura, un grande vuoto.
Pensa che cosa avremmo potuto godere ancora della musica appunto di Jim Morrison, di Jimi Hendrix o di Janis Joplin, ma anche di Amy Winehouse, di Kurt Cobain o di Lennon che alla fine muore a 40 anni in un momento in cui la sua vita stava artisticamente rinascendo.
Questa è forse la cosa che ci dispiace di più perchè lasciano un vuoto non solo nella mente, nel ricordo di chi a queste persone ha voluto bene, ma anche nel cuore di noi appassionati che avremmo potuto ancora godere delle opere di questi grandi artisti.
Loro hanno questo grande dono perchè scompaiono come esseri umani, ma rimangono vivi e immortali come artisti e le loro opere non ce le dimenticheremo mai.
Quanta spettacolarizzazione hai trovato in questa raccolta di emozioni e testimonianze?
Io credo di aver raccontato più emozioni e testimonianze che spettacolarizzazione che a volte è stata casuale, ma anche in questo caso dimostra l’eccezionalità e la straordinarietà anche per via di alcuni momenti davvero incredibili, coincidenze, incidenti che solo nella storia del rock potevano accadere.
Al di là dei soldi e del successo quale tra le persone che hai descritto nel libro ha, secondo te, accettato il trapasso “serenamente”?
Ci sono state delle persone che hanno accettato il trapasso serenamente anche in virtù di un’età diversa.
Abbiamo già parlato di David Bowie, ma ti posso citare Leonard Cohen e soprattutto Lou Reed, un personaggio che ho conosciuto personalmente insieme alla sua compagna, la grande artista newyorchese Laurie Anderson, ed è stata una morte serena totalmente diversa dalla percezione che noi abbiamo avuto, ma forse anche dalla sua vita giovanile. Un personaggio molto ostico, molto ruvido, basti pensare alla sua vita con i Velvet Undrerground o a canzoni come Heroin o lui che ha cantato proprio il lato selvaggio della vita che invece sceglie di morire tra la natura, trovando conforto in questa arte marziale spirituale che è il Tai Chi e trovando conforto anche nell’amore, nell’affetto, nell’amicizia nella complicità di Laurie Anderson che è stata al suo fianco per 20 anni e che lo ha accompagnato nei suoi ultimi momenti.
Credo che queste siano delle morti che hanno veramente un aspetto fortissimamente romantico e che ho cercato di raccontare e valorizzare nel miglior modo possibile perchè danno un’altra idea del trapasso.
Che poi uno ci creda o meno si passa a una fase diversa, la morte comunque, alla fine, è una delle fasi della nostra vita.
Che rapporto hai con la morte e che insegnamenti hai avuto dai racconti riportati nel libro?
Il mio rapporto con la morte, in virtù anche della mia non più tenera età, è un rapporto sempre più ravvicinato nel senso che al di là di tutto cominciano anche a mancarti persone vicine, amici, parenti, colleghi e quindi, come dice un mio amico, le bombe cominciano a caderti sempre più vicine.
Certo alcuni dei racconti che ho riportato nel libro, come dicevo prima, parlando di Lou Reed o anche di Leonard Cohen che ricorda, per la coincidenza di morire più o meno lo stesso periodo della sua fidanzatina dell’epoca dell’isola Hydra in Grecia, la sua Marianne della quale ha cantato la bellezza e il fascino di quei giorni. Ecco vedere quel tipo di finale di vita e di carriera che è perfettamente coerente, nel caso di Leonard Cohen, perchè è un finale davvero poetico, oppure che è incoerente, come nel caso di Lou Reed, ma incoerente in maniera positiva, credo che siano sicuramente rincuoranti e che possano far capire che è una fase della vita che però la si lascia in maniera significativa con la stessa significatività che le vite e le opere di questi personaggi hanno avuto.
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