Teatro Di Documenti
di S. Mrożek
Regia di Claudio Jankowski
con Riccardo Barbera e Roberto D’Alessandro
scene e costumi di Ro. Da.
Nato nel 1930, lo scrittore Sławomir Mrożek è considerato uno dei maggiori drammaturghi polacchi. Ha fatto parte del partito “Lavoratori uniti” durante il regime stalinista ed è stato anche un giornalista politico.
Solo alla fine degli anni Cinquanta Mrożek si rivelarà un capace scrittore con la sua prima opera, “Policja” (1958). Dopo più di trent’anni vissuti da esule viaggiando in tutto il mondo, nel 1997 tornerà nella sua Polonia.
“Tango” è la sua prima opera teatrale che risale al 1964, seguita da “Emigranci”.
Lo spettacolo di stasera, attraverso toni amari e ironici, ci racconta la storia di due emigrati polacchi che vivono in Francia.
Anche se le notizie in mio possesso annoverano questa proposta come Teatro dell’assurdo, in realtà io ho trovato ben poco di questo genere, appena qualche accenno sparso qua e là ma ben lontano dai vari Beckett e Ionesco.
Sicuramente il lavoro racchiude in sé elementi paradossali, a tratti surreali, che forse in parte si ispirano a quel genere.
Il drammaturgo racconta, tutto sommato, una storia realistica con tanto di riferimenti storici e politici, che in questa versione si è scelto di limitare perché appartenenti ad una realtà, quella polacca, a noi poco conosciuta, e che avrebbe rischiato di tediare o confondere lo spettatore.
La chiave espressiva racchiude in sé una spiccata forma ermetica arricchita da inserti drammatici e anche ironici ma pur sempre paradossali, che mantengono così l’intento dell’autore di spiazzare, turbare ed incuriosire il pubblico.
Mi sono chiesto se nella trasposizione dal polacco all’italiano ci sia stata una reinterpretazione dell’opera attraverso una chiave più comprensibile per il pubblico italiano, un po’ come accade con le opere di Cechov, e se così si sia perduta la connotazione con il teatro dell’assurdo, visto che questo è riportato nelle note di regia. Questa, ovviamente, è una mia supposizione.
Ricordiamoci però che l’autore si esprime artisticamente durante la forte oppressione del regime comunista, con cui era in forte contrasto. Così si spiegherebbe la scelta del linguaggio criptico e surreale per manifestare il suo dissenso.
Il testo di “Emigrati” risale, però, al 1974, lontano circa quarant’anni dalla nascita del teatro dell’assurdo, e si ispira all’ esperienza personale di Mrozek come emigrato in Francia.
Nella drammaturgia sono presenti due soli personaggi a cui l’autore non dà neanche un nome, forse perché così si può leggere il dramma non di due singoli individui emigrati, ma del fenomeno dell’immigrazione nella sua interezza. La storia è ambientata nella fatiscente abitazione dei due e comincia con il racconto del più bonaccione, Roberto, che narra della sua recente esperienza nella stazione ferroviaria della città, descritta con eccessi di protagonismo. L’ altro personaggio, Riccardo, in cui ho l’impressione di trovare celato l’autore, mette invece in dubbio, quasi con sadismo e pungente ironia, quanto raccontato dall’amico, dandone una versione più realistica e concreta.
La frase chiave, che racchiude il succo del dramma è riportata dal bonaccione, è che in una stazione nessuno è straniero e tutti lo sono. Confuso in quella massa di persone che va e viene, anche un emarginato come lui passa inosservato insieme alla sua diversità.
Una bella chiave di lettura, che sottolinea la ricerca di una propria appartenenza e identità da parte di questi orfani sociali e apolidi. I due nel dramma battibeccano di continuo e riescono, grazie all’interpretazione magistrale di Riccardo e Roberto, anche a divertire, senza però far perdere la connotazione drammatica del testo.
I dialoghi che ne conseguono sono molto veloci, spontanei, non sembrano il frutto di un copione ma del pensiero istintivo.
Alessandro e Riccardo sono due illustri artisti, ottimamente calati nei loro singolari personaggi. Riescono a trasmettere il dramma di un esule che non può tornare in patria a causa delle sue idee, e di un povero operaio che pur potendo, è costretto a rimanerne lontano per aiutare la sua famiglia. Due scelte differenti fuse in un unico destino, tanto che in alcuni passi ho avuto la sensazione che si trattasse di un conflitto interiore di un unico individuo.
La storia è farcita di forti sentimenti, risentimenti, frustrazioni, speranze, tristezza, illusioni e si basa su questa strana amicizia che lega i due, ma che nel corso della storia entra più volte in crisi a causa delle differenze caratteriali e culturali.
Il confronto risulta spesso ostico a causa delle distanze sociali (uno è uno scrittore, l’altro un operaio). Si avverte efficacemente la distanza culturale e le diversità.
Questo lavoro riesce a far riflettere sulla visione che la società ha dell’emigrato: non una persona ma un essere spersonalizzato; visione che ci impedisce di coglierne l’umanità. Il timore del diverso ci permette di rompere il legame umano che potrebbe invece avvicinarci empaticamente all’emigrato e comprendere le difficoltà di inserimento, invece di considerarlo un problema sociale ed economico.
Roberto nasconde la sua sofferenza attraverso una fantasiosa visione della realtà per edulcorarla, traspare in lui la frustrazione, la nostalgia e la rabbia per la sua condizione; Riccardo invece si adegua al suo interlocutore, prigioniero anche lui di una situazione che non gli permette di vivere apertamente il suo ruolo di persona colta. Tra i due si insinuerà il dubbio su chi veramente siano e si alimenteranno reciproci sospetti: è una spia? Un delatore? Un confidente? Probabilmente nessuno di questi, sono solo le loro paure che prendono il sopravvento su questa continua precarietà.
La recitazione è superba, profonda, espressiva, arricchita da momenti di forte tensione ad altri particolarmente divertenti e di respiro, che lasciano di fondo sempre un certo amaro in bocca.
Il Teatro di Documenti si presta bene ad ospitare questa proposta. Un luogo singolare e misterioso che esce dai canoni del tipico teatro che solitamente frequentiamo. Una scenografia misera ed essenziale sottolinea la precarietà e la povertà della situazione. Le luci, ma soprattutto i suoni che provengono sempre dall’esterno, risultano ovattato, confusi, distanti; sembrano voler circondare come con un filo spinato invisibile e invalicabile questa sorta di prigione più mentale che fisica, più sociale ed emotiva che reale, che prova i due uomini della loro libertà, rappresentata come una chimera, schiacciata ed oppressa.
Tante forti emozioni per uno spettacolo ben pensato e soprattutto ben recitato.
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