Teatro Trastevere
di Donatella Busini
regia di Mauro Toscanelli
con Donatella Busini e
Ornella Lorenzano
Luci di Francesco Bàrbera
Drammaturgia musicale di
Mauro Toscanelli
Scene di Mauro Toscanelli
Costumi di Emanuele Zito
E Claudio Giovannelli
Aiuto Regia Francesco Maggi
La storia verte sul difficile rapporto tra una madre e una figlia piene di rancori reciproci. Giovanna, la madre, è una donna con l’ossessione di invecchiare e di rimanere sola, in continua ricerca di conferme da parte di figure maschili.
Dall’altra parte c’è Elena (la figlia), afflitta da disregolazione del sé, che vive in uno stato di consapevole follia, e per questo la ritroveremo ricoverata in una struttura sanitaria e spesso sedata.
Unica sua compagnia è l’inseparabile Blanche.
Blanche Dubois è il personaggio di “Un tram chiamato desiderio”, interpretato da Vivian Leigh, l’attrice di “Via col vento” che in questo dramma trova un suo tributo.
Elena ha solo questa figura di riferimento con cui relazionarsi e confidarsi. In realtà si tratta del suo alter ego, materializzato in questa sorta di bambola: una testa di manichino su un busto avvolto in una sacco, che sembra una camicia di forza, in cui si riflette la condizione della giovane.
Al rapporto tra le due donne fortemente conflittuale si aggiunge questa terza figura. La madre riesce soltanto a riversare sulla figlia tutte le sue frustrazioni, colpevolizzandola anche del suo precario stato sentimentale. In realtà detesta la figlia, che vede come un peso e come l’espressione del suo fallimento. È narcisista, egocentrica, anaffettiva.
La drammaturgia è tutta al femminile, pensata e scritta da una donna, la stessa Donatella, che impersona Giovanna. Nel testo le figure maschili sono solo evocate e apportano sempre nuovi traumi e delusioni alla donna, che continua ad idealizzare i suoi discutibili partner per poi rimanerne delusa, quando non pesantemente traumatizzata.
Nel dramma sono perennemente presenti follia, disperazione, incomprensione, ma soprattutto l’incomunicabilità.
L’unica che si sforza di avere una relazione affettiva è Elena, bramosa di amore e attenzioni materne, ma si appoggia spesso a Blanche perché sua madre è perennemente distratta, alla ricerca di attenzioni maschili che, dopo averla sfruttata, la fanno precipitare sempre più nell’oblio della solitudine e nell’autocommiserazione.
La donna non si rende conto di perdere di vista l’unico affetto vero, quello di una figlia che vorrebbe solo essere amata ed amarla.
Ma queste dinamiche paiono essere irreversibili.
Elena, ancora nella struttura medica, mostra una forma di angoscia al pensiero di tornare a casa, nonostante desideri fortemente riabbracciare la sua mamma.
Il palco è colorato di vestiti sgargianti e parrucche dalle acconciature diverse. Servono alla madre per trasformarsi e per nascondere la sua vera natura, che lei non accetta .
È chiaro che la donna ha un forte rifiuto di se stessa e mascherandosi nasconde a se stessa e agli altri la sua natura. Recita una parte, ed infatti arriverà a proporci un monologo di quando era attrice, che diventerà una sorta di sfida a cui la figlia non si sottrarrà, attingendo alla trama di “Un tram che si chiama desiderio” e surclassando la madre nel confronto.
Si tratta di due momenti di grande pathos e di sopraffine recitazione. Forse uno dei pochi momenti di incontro, ma dietro cui si nasconde una certa rivalità.
Cos’è Elena se non la cruda rappresentazione della giovinezza che è ormai sfiorita in Giovanna? Una sfida persa in partenza che porta ad un inevitabile rifiuto e poi ad uno scontro.
Incentrata sulla sua scialba, decadente e triste personalità, ottimamente espressa da Donatella attraverso la sua sciatteria, l’alcolismo, il trucco pesante, l’approccio antipatico con la figlia, Donatella sottolinea tutta la personalità border line della donna.
La sua vita è un castello di carte precario pronto a crollare a trascinarla in quel baratro di apatia e disperazione sul quale bordo, saltella inconsapevole. Un burrone pronta ad inghiottirla e fagocitarla.
Una scena molto toccante è quella in cui Elena, tornata a casa nel tentativo di appendere il soprabito vicino a quelli della madre, lo vede regolarmente cadere a terra.
Un passaggio crudo che sembra rivelare che non c’è posto per lei in questa casa, in questa realtà. Allora si avvicinerà alla toeletta dove la madre cerca di trasformarsi, indossando una delle sue parrucche, guarda caso con un taglio identico a quello della madre, nella speranza di somigliarle e sentirsi accettata.
Ma la cosa sembrerebbe infastidire molto la donna.
I vestiti appesi nel buio si muovono come banderuole ad un flebile afflato di vento, apparendo vuoti ed inconsistenti, rispecchiano la personalità di Giovanna che, pur cambiandoli in continuazione come fossero la pelle di un serpente, la lasciano sempre insoddisfatta.
Così, mentre la giovane Elena veste perennemente una camicia bianca, simbolo evidente della sua purezza interiore, la madre alla ricerca della sua personalità tra tanti colori sgargianti che non la rappresentano finirà inevitabilmente per scegliere come ultimo travestimento quello che meglio la esprime e che l’accompagnerà all’epilogo della storia: un abito di colore nero, lo stesso che più volte Elena le consigliava di indossare, forse ben consapevole della personalità oscura e autolesiva della madre.
Anche in questo le due donne si rivelano due poli opposti destinati a non incontrarsi mai. Il bianco e il nero…
La scena della cena sottolinea in modo inequivocabile il divario tra le due.
Accompagnate da un sottofondo musicale a cui Mauro ha dato largo spazio per tutto lo spettacolo, parlano sovrapponendosi senza mai trovare un filo conduttore comune.
Alla fine in un momento di lucida follia e coraggio, mentre la madre sprofonda sempre di più in una forma di latente pazzia, sarà proprio Elena ad avvicinarsi alla madre che, prendendola per mano, si avvia verso l’ineluttabile, triste, sorprendente ed inaspettato epilogo.
La regia rispecchia la sensibilità artistica di Mauro che ha saputo entrare nella mentalità femminile delle due donne attraverso un attento studio degli ambienti, degli oggetti, delle luci e delle musiche.
Dirige con sapienza lo struggente e coinvolgente duo femminile in questa drammatica storia.
E se come Donatella dà vita ad un personaggio decadente, sofferto e fastidioso in una maniera più che credibile, Ornella come sempre si conferma un’ artista dotata e meravigliosa.
Dolce, profonda, toccante, sognante, con le sue crisi, i dubbi e le paure si mostra sempre affamata di amore e attenzioni materne, presentandosi come un personaggio dall’umore e dallo stato mentale altalenante, al contempo suggestivo ed evocativo.
La storia cruda e forte inghiotte l’attenzione dello spettatore nelle vicende di questo concentrato di drammaticità, lo porta ad amare ed odiare le sfaccettature dei personaggi, i loro comportamenti e le situazioni proposte e ad uscire scosso dal teatro, pronto a riflettere, ma al contempo consapevole di aver assistito ad uno spettacolo intenso portato in scena da due eccellenti attrici.
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