Teatro Tor Bella Monaca
di Carlo Picchiotti
regia Siddhartha Prestinari
con Stefano Ambrogi ed Ermenegildo Marciante
UAO Spettacoli
Ho sempre avuto paura, anzi, direi proprio una forma di angoscia di finire in prigione per sbaglio. Conosciamo tutti i casi di malagiustizia…
Ebbene, mi sono sempre chiesto come sarebbe stato il mio rapporto all’interno di un carcere, costretto in quattro mura, magari da innocente, aspettando l’incessante e monotono trascorrere delle giornate lontano dai miei affetti, dalle amicizie, dal lavoro, dalla casa. Credo che sarei impazzito; o forse, chissà, avrei sviluppato una forma di istinto di autoconservazione e sarebbe sorta in me una forza inimmaginabile atta a proteggermi e a reagire dalla situazione.
Ancora oggi mi chiedo come sarebbe vivere questa realtà, così lontana e diversa dalla libertà. Un’esperienza che forse attraverso i film abbiamo pallidamente intravisto.
Ebbene, Carlo Picchiotti ci propone la sua visione in teatro attraverso una storia interessante che riesce, con la scrittura e il binomio Ambrogi-Marciante, a restituirci il sapore amaro e disgustoso di questa realtà.
Ci fa entrare efficacemente nelle dinamiche tra i due soggetti e assaporare il forte retrogusto acre e pungente dei cambiamenti caratteriali maturati per sopravvivere all’interno di una realtà cruda e dura come questa.
Solitamente chi è in prigione lo ha meritato; spesso si tratta di reietti, individui pericolosi e antisociali. Ma il mio quesito naturale è: quanto queste persone sono come le vediamo?
E quanto invece è l’ambiente intorno che li ha condizionati? Una riflessione va anche al nostro sistema carcerario, che purtroppo non è in grado di rieducare chi ospita forzatamente, creando così delle persone ancora più astiose, represse ed ostili verso la società in cui si ritroveranno un giorno a vivere.
Quella rabbia la troviamo sul palco questa sera. Carlo ha saputo ben descriverla e Siddharta trasmetterla con la sua regia.
Complici la scenografia, le luci, i suoni e i costumi. Un testo che funziona grazie alla bravura dei due attori che ricreano il contesto, le dispute, i disaccordi, le discussioni, le tensioni e i momenti più sereni in questa gabbia. Apprezzo i lavori che lasciano grande spazio all’interpretazione e alla personalità degli attori come in questo caso.
Ermenegildo e Stefano, si muovono in una scenografia tetra e inghiottita dal buio dove predomina il grigio, il colore delle sbarre freddo, asettico, claustrofobico.
Dietro ai due, su un grande schermo si susseguono immagini in bianco e nero che riproducono ambienti carcerari. Dei binari sono immortalati dietro grate o recinsioni come a sottolineare che quelle strade portano lontano ma non per loro. Forse c’è la volontà di sottolineare che quella dei protagonisti è soprattutto una gabbia mentale, perché quella materiale non può imbrigliare i desideri, le speranze e i sogni.
Grigi e sospesi tra il bianco e il nero come le sbarre sono anche i personaggi, che oscillano tra il bene e il male, rimanendo nel mezzo. In sottofondo dei rumori legati alla vita carceraria, un continuo brusio, qualche ordine confuso dei secondini, qualche appello, schiamazzi; e poi, come colonna sonora, qualche brano ripetitivo, ossessivo, soffocante.
Siamo in questa triste e squallida cella di un qualsiasi carcere proprio insieme a loro. Il giovane indagato appena sopraggiunto ha l’aspetto alquanto innocuo. Sembra spaesato e visibilmente intimorito, essendo alla sua prima esperienza di detenzione.
Nella cella troverà un anziano galeotto, evidentemente più esperto e navigato di lui. Il giovane disorientato e traumatizzato si troverà immediatamente, suo malgrado, a iniziare una dura convivenza con questo duro che ha maturato negli anni di segregazione un carattere spigoloso, aggressivo e acido, barattando gran parte della sua umanità con una disperata resistenza. Il veterano si sente il padrone, mentre l’altro è apparentemente un ospite sgradito. Matureranno una sorta di rapporto contorto, evidenziato dai loro altalenanti stati d’animo.
Non manca in questo dramma un po’ di umorismo a denti molto stretti, serrati direi, che permette di affrontare umanamente un tema scottante come quello della detenzione.
Stefano, al solito, impersona un uomo rude, ruvido, odioso, l’ergastolano per eccellenza. Ermenegildo, al contrario, sembra quasi un bimbetto spaurito. La fisicità dei due è diametralmente opposta: il primo massiccio, vestito alla meglio, trasandato, sciatto, sgraziato e volgare. Il secondo gracile, timido, vestito elegantemente, dai modi cortesi. Come sottolinea la scrittura di Carlo attraverso i dialoghi, sono in perfetta antitesi caratterialmente e culturalmente, e sembrano i due lati di una triste medaglia. Rude e stomachevole è il violento rito di iniziazione che l’anziano dedica al giovane.
Eppure, nonostante le differenze, si scorge uno sfocato ed impercettibile punto in comune. I due sembrano uniti da un sottile cordone ombelicale… Vediamo l’anziano sentirsi quasi in diritto, forse spinto da un senso di rivalsa, di insegnare la dura legge del carcere al giovane. Anzi, come dice lui, di “imparare” al novellino, quasi come fosse un padre adottivo, a sopravvivere rispettando le regole vigenti non scritte.
Una bella prova per due attori molto diversi tra loro, che sanno compensarsi e sono in grado di valorizzare questa particolare proposta, a mio avviso mirata più a indurre nello spettatore stati d’animo ed emozioni forti e cupe che a farlo soffermare sulla storia. Quello che succede, infatti, sembra posto volutamente in secondo piano, ma ci rivelerà un finale a sorpresa, forse l’unico momento dalle tinte colorate.
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