“Minchia signor tenente”

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TEATROVID-19 Il teatro ai tempi del Corona (abbandoneremo le mascherine?)

Teatro Tor Bella Monaca

Scritto da Antonio Grosso, regia di Nicola Pistoia

con Antonio Grosso, Gaspare Di Stefano, Francesco Nannarelli, Cristian Di Sante, Francesco Siggillino, Martina Zuccarello, Antonello Pascale e Natale Russo

costumi di Maria Marinaro

scenografia di Fabiana Di Marco

luci di Luigi Ascione

Scritto nel 2008 da Antonio Grosso a soli ventitré anni, la commedia è stata presentata per ben dieci anni di seguito a Roma, otto a Torino e tre a Milano. Oltre cinquecento repliche, settantamila gli spettatori, tra cui cinquemila studenti. Vincitore del premio “Cerami”, lo spettacolo è stato anche presentato come tesi di laurea con il titolo” Il teatro come strumento educativo per la promozione della legalità”.

Siamo nella Sicilia del 1992 in un piccolo paese sulla cima sperduta di una montagna, dove c’è una caserma di carabinieri. Il gruppo di militari è eterogeneo, tutti provenienti da diverse regioni italiane.

Ora si può immaginare cosa possa succedere di così grave in un piccolo paesino poco popolato, dove i crimini sono ridotti a zero. Unica malvivente sembra essere una volpe che, più che rubare galline, non può fare. A cadenza regolare si presenta il pazzerello del paese per denunciare furti assurdi e poco credibili. La caserma si presenta come una vera e propria famiglia. L’arrivo di un nuovo tenente però, destabilizza l’equilibrio, mentre pian piano, come una lontana eco, si affaccia con discrezione e marginalmente il dramma della mafia.

La forza della commedia sta nel rappresentare realisticamente uno spaccato di vita di una caserma qualsiasi, in cui i carabinieri vengono mostrati per quello che sono; giovani come tanti altri che hanno scelto questa vita e coltivano i loro sogni. Hanno i loro difetti e pregi, vivono promiscui in un ambiente militare in cui le varie provenienze regionali entrano in contatto attraverso dialetti multicolori come il romano, il napoletano, il siciliano, il lucano e si miscelano creando un’armonia di suoni italiani, sempre veri e genuini. Scherzi, battute, confronti portano avanti la storia, che con l’arrivo di un austero e anche antipatico tenente, che sembra provenire da altri tempi, malvede un ambiente così familiare e rilassato. Cerca dunque di riportare a suo modo un po’ di ordine militaresco in questo divertente manicomio. A strappare sorrisi, oltre alla nostra allegra brigata, interviene spesso il vecchietto pazzoide del paese dal dialetto siciliano incomprensibile e dalla gestualità davvero comica. È interpretato ottimamente da un fantastico Natale Russo. Il buffo soggetto diviene un assiduo frequentatore della caserma come a voler essere al centro dell’attenzione perché evidentemente si sente solo; per questo sporge continuamente denunce improbabili raccontando di aver subito il furto di mutande, giacche, cappelli che in realtà regolarmente vengono dimenticati in giro. È tollerato dai giovani carabinieri, che di tanto in tanto però si spazientiscono, ma che trovano in lui anche un passatempo per rompere la monotonia del piccolo centro dove non avviene davvero nulla. L’unica situazione “destabilizzante” che crea un po’ di attenzione e interesse è la relazione di uno di loro con una ragazza del posto, una verace siciliana, schietta e coriacea, interpretata da una adorabile e bravissima Martina Zuccarello. Ai tempi una relazione con una persona del posto era vietata dallo statuto dei militari, così i colleghi cercano di tenere segreta la cosa per evitare il trasferimento del collega. Ovvio che questo è un ottimo incipit per creare quelle situazioni divertenti di vita quotidiana che rendono lo spettacolo leggero, vero e piacevole.

Antonio Grosso con delicatezza ed eleganza ci rapisce e ci porta nel vivo di questa caserma, tra i quattro mobili vecchi e impolverati di una scenografia essenziale e illuminata per sottolineare i diversi momenti da raccontare, insieme al maresciallo Antonello Pascale, un burbero dal cuore tenero; al grande Francesco Nannarelli, il tenente tutto d’un pezzo che stona con la goliardica compagnia. Tutto perfetto, dalla regia di Nicola Pistoia ai costumi, dalla recitazione alla sceneggiatura di Antonio Grosso che la rende ancora più sua interpretando un brigadiere dall’accento partenopeo che gioca, scherza e ci diverte. E poi abbiamo Gaspare Di Stefano, Francesco Sigillino e Cristian Di Sante e un bravissimo Antonello Pascale. Un bel gruppo di commilitoni, composto da bravi artisti che divertono il pubblico esprimendo le loro particolarità con l’efficace spontaneità che fanno vivere ai loro personaggi. Spettacolari, bravi, concreti, veraci. Un cast egregio, degno di nota che ci regala emozioni, divertimento, ma anche profonde riflessioni.

Si segue bene tutta la storia, ma ad un certo punto comincio a domandarmi: “Sì, va bene, ma allora”? Siamo entrati in questa situazione normale, quotidiana; ma ora? Antonio deciderà di dare una svolta per arrivare ad un epilogo? Come? Cosa deve accadere? È tutto troppo normale! Non vedevo sbocchi, pensavo ad un finale simpatico e sì, cominciavo ad essere perplesso.

È invece neanche il tempo di finire di pormi domande, che la svolta avviene magicamente, senza quasi accorgermene, con un crescendo lento e drammatico, con un progressivo incedere dove tutto cambia colore e diviene più fosco, ma dove ogni cosa è affrontata con delicatezza, tatto e una classe davvero sopra le righe.

Due carabinieri saranno comandati di scorta ad un giudice… Continuo? Si, posso, perché lo spettacolo pare non verrà più replicato, quindi posso spingermi e rivelare che siamo negli anni ’90 e il giudice è Giovanni Falcone… Meraviglioso come magicamente Antonio ci proietta in quest’ altra realtà, cruda e terribilmente vera. I due carabinieri non torneranno; ci appariranno più tardi, come anime sofferenti, mentre raccontano l’epilogo della loro breve vita fatta di speranze e progetti infranti. Con parole che toccano, che accarezzano malinconicamente il nostro cuore, lasciando quello spiacevole ma inevitabile retrogusto amaro e un pizzico di rabbia. Il modo in cui il finale drammatico, coinvolgente ed emozionante che ti sbatte in faccia la realtà, viene fatto nascere da una serie di scene dominate dalla comicità e dai piccoli episodi di una vita normale, fa di questo spettacolo un capolavoro. Riavvolgendo il nastro, capisco perché durante la storia tutto intorno ai protagonisti c’è il buio, come per ricostruire le tenebre di questo mondo perverso che circonda tutto e incombe; tenuto ai margini dalla fioca luce della realtà della caserma, unica isola di legalità che argina questo mondo malato fatto di crimine. Capisco perché all’improvviso, tra una scena e l’altra, si smorzavano le luci sul palco e in quel buio che entrava fastidiosamente nel cuore di tutti si sentivano le intercettazioni telefoniche tra malviventi che rompevano quell’armonia. Capisco finalmente che lo spettacolo ci voleva portare fino a qui, trascinarci dentro un mondo parallelo malato, e lo ha fatto sorprendendoci, scioccandoci, ma con la stessa dolcezza protettiva con cui una madre soccorre il proprio figlio che cade malamente a terra. Antonio ci avvolge, ci protegge, ci porta con lui insieme ai suoi fantastici colleghi in questa dimensione, ma al contempo riesce a tenerci a distanza di sicurezza, ci fa sentire il fetore, il lezzo che comincia ad intossicarci, ma doma questo cane rabbioso che ci abbaia contro: la mafia. Tenendola al guinzaglio, ci mostra come i suoi denti abbiano azzannato e portato via queste giovani vite.

A fine spettacolo, inaspettatamente sullo sfondo sono proiettate le immagini di decine e decine di servitori della legalità e della patria, volti noti e meno noti, che hanno loro malgrado occupato lo spazio della cronaca nera nei telegiornali. Volti puliti di carabinieri, poliziotti, giudici, fino a Giovanni Falcone. Vite immolate alla giustizia nel tentativo di estirpare il cancro della mafia. Non so come Antonio sia riuscito in questa impresa, quella di farci subire uno shock così dolce.

Per completare la serata, dopo i saluti i nostri ci leggono una struggente lettera di Salvatore Borsellino, fratello del giudice scomparso. Tutti insieme, a turno, leggono una manciata di righe. Vogliono farsi portavoce del suo messaggio di speranza ed impegno, oltre che del suo dolore. Tutti, come a voler rappresentare che l’unione fa la forza, e che le persone giuste aborriscono la mafia. Avrebbe potuto leggerla da solo Antonio, invece ha voluto condividerla con gli altri e questa è un’ennesima dimostrazione di quanto lui creda nel gruppo. Questo accade a ogni replica, tranne quando è presente lo stesso Salvatore, che ospite dello spettacolo, legge lui stesso la sua lettera… Che dire? Se non lo avete visto, sappiate che vi siete persi un’opera d’arte.

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