Teatro Villa Lazzaroni
scritto e diretto da Giovanni Franci, con Valerio Di Benedetto
elaborazioni digitali Nuvole Rapide Produzioni
direzione tecnica Umberto Fiore
assistente Fabio Del Frate
una produzione Fondamenta Teatro e Teatri
Lo spettacolo “Pietro Orlandi, fratello” è scritto e diretto da Giovanni Franci ed interpretato da Valerio Di Benedetto. Viene proposto ad ormai quarant’anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi.
Pietro, il fratello della sfortunata ragazza, che tante volte abbiamo visto in televisione tra interviste e dichiarazioni, e sempre all’inseguimento di piste di ogni tipo nella speranza di ritrovarla, elabora un bilancio doloroso, profondamente intimo e toccante della sua lunga e vana ricerca della verità, in uno splendido seppur triste monologo.
Il resoconto dell’incontro tra Pietro e il regista è diventato un testo teatrale molto forte, diretto e profondo. Franci non è nuovo a tematiche simili, qualcuno forse ricorderà il suo spettacolo “L’Effetto che fa” tratto dal caso Varani, o anche “Il caso Estermann”.
In questa nuova proposta si ascolta il rumoroso silenzio del peso di quarant’anni anni di omissioni, depistaggi, segreti e menzogne che vengono lanciati addosso al pubblico in un mix di dolore, rabbia e frustrazione, ma mai di rassegnazione.
Valerio, nei panni di Pietro con classe e talento, scartando le congetture ci pone davanti a tre piste diverse: il terrorismo internazionale, l’interesse economico che coinvolge la criminalità organizzata, la pedofilia.
Tre strade molto diverse che però hanno un unico comune denominatore: il Vaticano, lo Stato più piccolo esistente al mondo, ma tra i più potenti ed omertosi.
In un unico atto dai ritmi incalzanti si affronta uno degli eventi più oscuri della cronaca nera italiana che ha tenuto col fiato sospeso l’opinione pubblica, persa dietro a tutte le false piste volutamente inscenate da forze occulte e da iene in cerca di notorietà che non si sono fatte scrupolo per mettersi in mostra infierendo sulla sofferenza della famiglia Orlandi.
Tutto a scapito del tempo, quel tempo che passando fa dimenticare, allontana, cela, fa perdere tracce, memoria e coscienza.
Sentiremo spesso quel tempo scandito da un ticchettio persistente e fastidioso, durante il monologo.
Le tre piste sono ripercorse dalla memoria di Pietro Orlandi, che ridesterà in noi il ricordo di avvenimenti noti ai quali si aggiungeranno i ricordi più intimi intrisi di dolore, raccontati da Valerio in modo sentito coinvolgente e appassionato.
Emanuela non ha avuto ancora giustizia, così come i suoi familiari non conoscono ancora la verità. C’è un’ombra oscura, o forse è meglio dire una macchia indelebile, sul Vaticano, che ancora oggi cela un segreto inconfessabile.
Un ticchettio continuo, assordante, fastidioso ed inesorabile continua a segnare il tempo, ad accompagnarci in questo viaggio a ritroso fino ai giorni nostri.
Da quarant’ anni Pietro non si rassegna nella ricerca di Emanuela, per sé e per l’anziana madre. Il molesto e sempre più odioso ticchettio è però anche quello che scandisce un secondo, quell’unico secondo, in cui tutto è cambiato quando Emanuela scompariva chissà dove, chissà perché.
È sconcertante pensare che qualcuno molto vicino alla famiglia, che per cento anni ha servito fedelmente il Vaticano, abbia tradito queste persone, permettendo che si facesse del male ad una ragazzina di quindici anni senza opporsi né denunciare.
Pietro da quel momento non ha pace né ricorda cosa sia la felicità, e come dice guardando i suoi sei figli, la tristezza per fortuna non si eredita ma potrebbe essere contagiosa…
Il commovente testo di Giovanni Franci ci accompagna nell’interpretazione di un grande Valerio Di Benedetto, che con voce calda e convincente e gli occhi scintillanti e penetranti che sembrano bucare quel velo di omertà che ancora resiste, ci attraversa l’animo.
Siamo toccati dalle sue parole pungenti, provocatorie, accusatorie, rancorose e speranzose mentre ci racconta di un segreto pesante e drammatico, reso ancor più difficile da accettare visto che ben tre papi in successione non hanno avuto la capacità, il potere o la volontà di rivelare.
Nella brillante recitazione di Valerio si avverte quanto sia entrato in intimità con il personaggio e il Pietro uomo, mettendo sulle spalle, con il suo lavoro, una parte di questo pesante fardello.
In una scenografia minimale supportata da un efficace gioco di luci, musiche e da alcuni video, pannelli bianchi che portano il nome delle persone invischiate nella storia sembrano aspettare, come carte da scoprire in un gioco perverso il loro turno per essere conosciute dal pubblico.
Ci sono figure note, altre un po’ meno, ma di tutte viene spiegato hanno dato il sordido contributo alla vicenda: Vergari, Poletti, Cavi, De Pedis, Re, Marcinkus, Abril, Bertone, Calò, Ganswein, ma anche Bergoglio, Wojtyla, Ratzinger.
Sono esposte al pubblico, che rimane col fiato sospeso, si emoziona, si sconcerta, bisbiglia, borbotta ed inveisce sottovoce per tutto ciò che viene raccontato nello spettacolo.
L’apice del disgusto si raggiunge quando si ascolta in un registrazione audio in mano agli inquirenti, i lamenti e la sofferenza di quella che potrebbe essere Emanuela, mentre viene torturata o, più verosimilmente, stuprata…
Suggestivo è il video in bianco e nero che proietta una strada percorsa in auto durante un giorno di pioggia, anni dopo la scomparsa, quando Pietro e sua madre si recano in un luogo dove pensano di poter riabbracciare Emanuela.
Valerio è struggente nel riportare l’amara esperienza del mancato riconoscimento della ragazza da parte della madre. In quel momento l’immagine si sdoppia, si confonde, si aggroviglia, si sovrappone, e si ha la sensazione di impantanarci anche noi in quel depistaggio e di comprendere quel dolore.
Si avverte un lieve capogiro perché si fa fatica a seguire quel percorso che si incrocia e si sdoppia di continuo. È un’ efficace metafora che permette di sentire l’amarezza e il disorientamento di quel momento…
Emozionante quando Valerio scende dal palco rompendo la quarta parete per continuare a raccontare la storia tra noi, guardandoci dritti in faccia. All’improvviso lo vediamo inghiottito dal buio, come fosse un testimone scomodo che dall’ombra cerca di svelare l’intrigo. Altra metafora riuscita.
La regia sceglie di invertire le parti: illuminando la sala, lascia Valerio nel buio così che quasi scompare, come la verità.
È vestito completamente di nero, con una camicia bianca che si affaccia appena dalla giacca, imprigionata come il segreto che vorrebbe venir fuori.
Forse in questa predominanza di bianco e di nero che avvolge la scena e che troviamo anche nelle immagini proiettate, c’è il tentativo di nascondere i colori della vita, che in questa triste vicenda mancano completamente.
Poi, inaspettatamente, Valerio si toglie la giacca e quella camicia bianca candida si illumina, diventa quasi un grido di speranza, come un forte desiderio di liberazione.
Forse questo gesto rappresenta la volontà mai morta di far luce sulla storia con una volontà che alla fine prende le forme di una dolce minaccia, quando Pietro spiega che anche se lui non ci sarà più, ci saranno i suoi sei figli a reclamare giustizia per Emanuela…
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