Teatro degli Audaci
diretto da David Mastinu con Karin Proia, Monia Rosa, Giancarlo Porcari e Daniele Trombetti. Prodotto da Golia Srl di Stefania Curci,
Dopo aver visto le prove e scritto un articolo, stasera vedo lo spettacolo. La scenografia riproduce l’interno della fabbrica dove si svolge una storia raccontata in forma di commedia brillante che però non disdegna momenti più profondi ed intensi, in cui si inserisce sgomitando una certa dose di drammaticità. È solo una mia sensazione? Accertatelo voi andando al Teatro degli Audaci. Uno spettacolo che avrà vita lunga perché è interessante l’attenzione con cui tratta l’argomento.
Viene ricreata efficacemente la routine del lavoro attraverso repentini scambi di battute e doppi sensi, tensioni ed attriti, dinamiche che quotidianamente si vivono. Tutto risulta realistico, compreso il finale ingannatore, efficace e vero, che arriva come un fulmine a ciel sereno lasciando interdetti.
I personaggi in scena sono quattro: Ciro, un simpatico e vivace informatico, e Gustavo, un capo reparto sempre esuberante ma a volte anche aspro e diretto. I due si alternano preoccupandosi di organizzare le loro serate di paddle, o riferendo a due colleghe le notizie sui mutamenti aziendali e i traguardi produttivi raggiunti o da raggiungere. Fabiola e Daniela sono colleghe e anche amiche d’infanzia; mentre lavorano tra viti e bulloni da stoccare, si confidano sulle loro esperienze, gli amori, i sogni, i desideri e i timori.
Le emozioni provate assistendo alle prove sono diverse da quelle dello spettacolo. Ricordavo qualche battuta, qualche scambio, ma ora ho potuto apprezzare l’opera intera in un’unica soluzione, senza interruzioni, ed essere totalmente assorbito dalla storia. E poi non avevo visto il finale…
Complice della riuscita è l’ingombrante e curata scenografia; semplice ma efficace, è composta da numerosi scatoloni impilati e pronti a partire che compongono una vera e propria muraglia, che ben illuminata dà l’effetto della profondità di un grande magazzino e sembra opprimere i lavoratori e al contempo invadere la platea catturandola. Poi ci sono i costumi degli operai: dalle scarpe antinfortunistica alla divisa, che ci forniscono una buona dose di realismo insieme ai suoni di sottofondo della catena di montaggio.
La storia si svolge attraverso scene ben distinte che danno il senso del trascorrere del tempo, dei giorni e degli estenuanti turni lavorativi sempre piuttosto monotoni, rallegrati però dagli scambi tra colleghi.
Il testo ha un sottile ed appena avvertibile crescendo, che aggiunge gradualmente alla vicenda la giusta pressione, leggibile nelle espressioni dei protagonisti. Una pressione che si fa sempre più prepotente, invadente e che arriverà a smorzare quegli spensierati toni goliardici degli inizi.
Non mancano, tra i dialoghi, qualche battuta e riferimento alla politica, ma quello che David ha voluto sottolineare nel testo sono la precarietà e lo sfruttamento dei lavoratori. Sono sempre più pressati dall’aumento degli ordini da evadere, ma anche dalla bramosia autolesionista di raggiungere gli obiettivi che matureranno poi in un premio produzione, tradotto in un emolumento che tanto serve per rinvigorire i magri stipendi di questi operai che si barcamenano tra difficoltà quotidiane.
“Premio produzione”, attraverso un approccio ironico inizialmente leggero, vuole evidenziare alcuni aspetti del lavoro all’interno di una fabbrica dal nome di fantasia: “Vitalacciai”. L’obiettivo a cui i vertici mirano subdolamente è potenziare la produzione attraverso la spinta e l’incoraggiamento dei due uomini, quelli che paiono dei semplici colleghi delle operaie, ma che inconsapevolmente diventano sicari del potere, pronti a spingere le donne verso il raggiungibile incentivo economico, utile sia alla mamma separata Fabiola che a Daniela, sposata da poco ed in procinto di tirar su famiglia. Vogliono appunto spingerle oltre i limiti a discapito della sicurezza e della salute. L’incentivo, scopriremo, nasconde in realtà un “elegante” sfruttamento della classe operaia.
Fabiola è interpretata da Karin Proia, un’operaia verace e schietta con un forte accento romano, che storpia le parole in maniera divertente. L’attrice raccoglie le simpatie del pubblico grazie a quell’iniezione di spontaneità con cui disegna il suo personaggio, la ragazza della porta accanto in cui molti spettatori potrebbero riconoscersi.
La sua collega Daniela è interpretata da Monia Rosa, più istruita ed idealista, politicamente schierata con un proletariato che ormai è snobbato, avendo perso il potere e i consensi degli anni ’70. Così, è sempre in attrito con i poteri forti della fabbrica, in questo caso rappresentati dai due uomini, perché qui come nella realtà tali poteri sono nascosti, direi immateriali. Monia dona un carattere brillante, gradevole e disinvolto a Daniela e ricco di sfumature.
Giancarlo Porcari invece è Gustavo, il capo reparto, che pur avendo un carattere simile a quello delle colleghe, ha un ruolo che gli impone delle responsabilità costringendolo in alcuni momenti a evidenziare un certo distacco e ad esprimersi con asprezza. Una figura dicotomica, da una parte piacevole e sorniona e dall’altra antipatica e odiosa. L’attore è molto bravo nel muoversi su questa linea invisibile che divide il suo personaggio.
Daniele Trombetti è invece Ciro, un programmatore dal carattere simile a quello delle colleghe ma con un ruolo che lo pone su un gradino più alto costringendo a manifestare, in alcuni passaggi, una certa altezzosità. Daniele è travolgente, esilarante e simpatico con le sue insicurezze e certezze; è la “brutta copia” simpatica di Gustavo. Le sue uscite sono sempre azzeccate e donano al personaggio una forza irresistibile che spezza le scene e si interpone prepotentemente tra i dialoghi dei colleghi, ravvivandoli.
Il testo, apparentemente semplice, colpisce con un’intelligente e pungente vena ironica il tema della differenziazione per classi sociali, lasciando trasparire sempre più una drammaticità di fondo che conduce lo spettatore inconsapevolmente ad aprire gli occhi sul senso della pièce, fino all’inaspettato epilogo.
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