“Regine di cartone”

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Di Marina Pizzi
Regia Silvio Giordani
Con Angiola Baggi, Mirella Mazzeranghi e Maria Cristina Gionta
Scene Di Mario Amodio
Costumi Di Lucia Mariani
Musiche Originali Di Stefano De UnMe
Foto di scena Tommaso La Pera

Questa è la storia di tre donne che vivono per strada e si sono perse, allontanate dalla società, ognuna per un motivo diverso. Sono rifiutate e al contempo rifiutano regole e valori della nostra collettività.

La scelta di questa vita solitamente è la conseguenza ad un trauma psicologico: la perdita di un affetto, una violenza subita, comunque un’ esperienza fortemente negativa e destabilizzante.

Questa è la molla che alle nostre protagoniste ha fatto decidere di abbandonare il mondo che le ha deluse, da cui sono fuggite e che vogliono rinnegare, per scegliere come compagne la strada e l’emarginazione. Ora possono relazionarsi esclusivamente con persone come loro, con lo stesso passato di sofferenza, e condividerne il destino comune.

Ogni società moderna ed evoluta nasconde, tra le ombre del suo progresso, vittime relegate sotto un ponte o in un vicolo buio.

È il rovescio della medaglia del benessere di cui godono solo alcuni e che genera un mondo parallelo, volutamente ignorato, un sottoprodotto di questa società cieca ed egoista, che accetta insofferente che vicino ad un negozio sfarzoso e di lusso ci sia un bivacco fatto di stracci ed oggetti spesso inutili, portati con sé per ricordarsi di essere ancora degli esseri umani.

È il mondo dei clochard, dei barboni, dei “Fiori invisibili”, come li presentò Monia Quintiliani, fotografa della sua mostra a Roma qualche anno fa.

Monia, oltre ad averli fotografati in uno splendido bianco e nero, aveva parlato con alcuni di loro scoprendo e il triste passato che rivelava dei precedenti importanti e di tutto rispetto. Tra loro c’erano persone colte, altre erano state benestanti o addirittura ricche, altre ancora avevano vissuto tra difficoltà che non gli avevano permesso di integrarsi nella società.

In questa proposta di Marina Pizzi l’argomento viene affrontato in chiave originale: dramma e ironia si tengono per mano mentre percorrendo vicoli e marciapiedi sporchi, raccontano le vite di queste dimenticate, che dimostrano nonostante la situazione una loro moralità, a volte più spiccata e profonda di quella di noi.

Due di loro sono in là con gli anni, l’altra è più giovane. Gina, è stata un’attrice di teatro che vive ancora tra i suoi ricordi sotto i riflettori, comportandosi come fosse ancora in scena.

Tonta era la proprietaria di un bar ben avviato, ma a causa di una mal gestione del suo compagno di vita, viene travolta dai debiti contratti con gli strozzini ed è costretta ad abbandonare tutto.

Ruvida, quella più giovane, in eterno conflitto con la madre, è cresciuta senza punti saldi di riferimento ed amore materno, e poi, visto che il destino le negava anche l’ amore di un uomo, ha scelto come surrogato di questo sentimento la prostituzione per avere ogni notte un uomo diverso.

regine di cartoneIl palco appare disordinato, è pieno di misere cianfrusaglie di cui le povere donne si contornano e che rispecchia la confusione delle loro vite; ma questa è anche la loro casa, o una parvenza di essa. Paradossalmente la scena è particolarmente colorata con luci brillanti che esaltano la contrapposizione con la povera ed essenzialmente triste scenografia.

Si entra in sala e una musica di sottofondo malinconica accompagna lo spettatore, che cerca il suo posto. Vicino al muro una figura inquietante, disturbata, si aggira con i suoi fantasmi interiori. È Ruvida, completamente ignorata dal pubblico.

Anche nella finzione, dimostriamo già la nostra indifferenza verso quelli che consideriamo dei reietti…

La storia viene proposta in maniera volutamente statica e lenta, forse per rappresentare l’indifferenza nei confronti del tempo, cosa del tutto trascurabile per delle persone che vivono in strada e non hanno certo impegni, appuntamenti o doveri da assolvere.

Si chiamano tra loro con nomi fittizi che volutamente le spersonalizzano, soprannomi che ne rispecchiano l’indole ignorando completamente i propri nomi di battesimo che appartengono ormai al passato.

Il testo è ben scritto, corposo, a tratti spiazzante, vuole perdersi per poi ritrovarsi in quelle discussioni talvolta confuse fra tre donne che più che la loro realtà di barbone, fanno emergere il lato femminile ferito.

Alla fine sono i bei costumi sdruciti e raffazzonati, gli oggetti rimediati per strada che si portano dietro e i brandelli delle loro storie a riportarci alla dura realtà della strada. Racconti in cui si fa fatica a capire dove sia la realtà e dove questa così dolorosa, si trasformi in fantasia, usata come antidolorifico.

Una delle protagoniste conserva gelosamente un paio di scarpe rosse, da sempre considerate e simbolo della violenza alle donne già in antichità. Erano infatti rosse secondo l’agiografia le scarpe che indossava Santa Lucia, quando tentarono di violentarla…

A volte le vittime fanno difficoltà a sentirsi tali e forse il gesto di conservare quel simbolo è un modo per espiare la propria colpa, quella di sentirsi responsabili per la violenza subita.

I personaggi sono in fondo dolci, rassegnati, a tratti astiosi quando manifestano il dolore attraverso la rabbia e la paura. In alcuni tratti la rappresentazione delle loro emozioni attinge con spunti presi dal teatro dell’assurdo, ma poi torna concreta, reale, cruda.

Quello che esalta la storia è sicuramente la recitazione. Angiola Baggio è Gina o Regina, recita con un impostazione teatrale da far venire i brividi; classe e preparazione trasudano da questa attrice, così come la sua sensibilità che dona al personaggio che interpreta.

regine di cartoneLa marcata impostazione teatrale non è sempre presente, spicca solo nei momenti giusti, quando la donna tocca gli argomenti più dolorosi. Ecco che il teatro e la profonda conoscenza della tragedia greca diventano una via di fuga, un lenitivo, un’ ancora di salvezza, una protezione dai mali che la rodono da dentro. E allora recita, recita con sé stessa e con gli altri; d’altronde cos’è la vita sé non un enorme palcoscenico?

Mirella Mazzeranghi è Tonta, claudicante, stralunata, dissociata, a volte sembra vivere in un mondo a parte, appare intorpidita e rimbambita. Probabilmente anche per lei sono i forti traumi che ha subito ad averla fatta rifugiare in questo offuscamento mentale, più emotivo che fisico.

Nei momenti in cui è più presente a sé stessa, esplicita un forte senso materno che si manifesta attraverso una dolcezza estrema, che a volte lotta per emergere dal suo stato confusionale. Riserverà una sorpresa nella storia, che l’attrice espliciterà attraverso un repentino cambio di recitazione ottimamente riuscito, un’altra perla recitativa di questa pièce.

Maria Cristina Gionta è Ruvida, di nome e di fatto; ha un atteggiamento aggressivo e si esprime con una voce graffiante, sofferta e rabbiosa.

Una ragazza dall’atteggiamento provocatorio, è sempre sulla difensiva, pronta a scattare come un serpente. Il suo passato è piuttosto burrascoso e intriso di vicissitudini. L’attrice, con i suoi atteggiamenti marcati, né sottolinea gli aspetti più crudi e sofferti.

Entra spesso in sfida ed in conflitto con le altre due che sono più unite, perché da più tempo vivono insieme e forse anche perché coetanee. Maria Cristina, attraverso la sua interpretazione riesce a lasciare delle aperture che fanno chiaramente percepire una sepolta ma presente bontà d’animo.

Questa sorta di Trinità della strada ha qualcosa di poetico nella sua crudezza. Le anime che la compongono sembrano alla ricerca di qualcosa che in realtà paradossalmente già hanno. Sono già libere dai dettami della società che peraltro le rifiuta, non hanno più obblighi, ma soprattutto non devono sottostare più alle angherie di nessuno e chiaramente si capisce che, vivendo di stenti, sono diventate più forti.

Alla fine sconfiggeranno le loro conflittualità reciproche e troveranno la completezza unendosi tra loro. Quando questo patto simbolico si suggellerà, ci sarà una scena finale alquanto chiarificatrice, che al contempo determinerà il definitivo strappo di quel lacerato cordone ombelicale che sottilmente ancora le legava alla società.

Alla fine dello spettacolo, durante i saluti, le attrici chiedono al pubblico di scrivere su un foglietto precedentemente consegnato all’ingresso, cosa vorremmo donare ad uno dei personaggi.

Più che un dono, è forse un pensiero, che prolunga e suggella un ulteriore contatto tra il personaggio/artista e il pubblico. È anche un modo per scegliere la figura che più ci ha toccato ed emozionato e per portarci a casa quella delicata atmosfera che si è creata.

Un’idea molto carina, e forse anche un modo affettuoso per il pubblico per testimoniare a queste brave attrici quanto sia piaciuta la loro esibizione.

Una magica interpretazione che si fonde in un dolce connubio tra poesia e dolore.

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