Teatro Belli
Di Carlo Picchiotti
Con Patrizio “Paciullo” Pucello e Olimpia Pagni
Regia di Claudio Boccaccini
Un pianoforte ed un genio della musica, nato per comporre e suonare. Già in tenera età era artisticamente superiore a chiunque, ma questo dono della natura aveva il risvolto della medaglia, una dannazione: non poter ricevere amore. Il fulcro della storia di questo spettacolo è proprio qui. La sua musica, seppur allegra e dinamica, nasconde insoddisfazione e sofferenza. Forse è anche il mezzo con cui il genio reprime il suo stato d’animo per fuggire al vuoto interiore.
Amadeus, in tutta la sua vita, sarà privato di un sentimento fondamentale: non riceverà l’amore del padre, né quello della madre, e neppure della moglie; ancor meno del suo monarca e della corte, che disprezza apertamente, come si evince anche dal monologo. La sua è una critica aperta alla società falsa, ipocrita e invidiosa che mira a sfruttare le sue doti, a goderne ma anche a schiacciare la sua persona, relegandola in un angolo come un bell’ animaletto da compagnia da mostrare e da tenere al guinzaglio dopo averlo esibito con fierezza. Amadeus è qualcosa da spremere e sfruttare per il piacere, come un oggetto da mostrare e da riporre poi in un buio cassetto. Dunque, tutti gli ideali come la famiglia, la società, l’amicizia, Dio sono messi alla berlina da un genio amareggiato e stanco di celare il suo dissenso.
L’unica consolazione per questo ragazzo che muore a 36 anni di nefrite, è la sua grande musica, quella che l’ha accompagnato per tutta la vita fin dalla nascita e che ora lo porta per mano verso la morte, verso l’ultimo concerto, suo ultimo capitolo, il testamento di cui ci rende partecipi.
L’Amadeus di Picchiotti si rivela a noi portandoci in un viaggio attraverso la profonda amarezza che lo pervade e lo soffoca, e di cui vuole liberarsi.
Il monologo è diretto da un grande Claudio Boccaccini e la scenografia si serve di pochi elementi: due quadri sospesi nel vuoto e sbilenchi ma paralleli tra loro come a rappresentare due realtà vicine e al contempo distanti, instabili, precarie come la figura dell’artista che ci si muove in mezzo sfiorandoli senza mai toccarli né sconfinare. L’unica stabilità è rappresentata da una sedia dell’epoca, di quelle imbottite, posta al centro della scena e su cui spesso Paciullo, in abiti d’epoca e con l’immancabile parrucca settecentesca, impersona mirabilmente un Amadeus che svela sé stesso attraverso un accorato sfogo di non detti e di rospi ingoiati, palesando la sofferenza e il disgusto per la corte che lo circonda.
Paciullo si profonde in un eclettico, intenso e mirabile monologo, rotto di tanto in tanto dall’apparizione di una leggiadra ed elegante fanciulla, Olimpia Pagni. Si tratta di una brava cantante lirica, dotata di una voce soave, melodiosa e al contempo potente che accarezza la scena in maniera suggestiva come la sua presenza, e che scivola giù dal palco per avvolgerci con estrema dolcezza, quasi a fare da contrappeso alla sofferenza esplicitata dal musicista.
Una presenza angelica che appare ogni volta con diversi e bellissimi costumi. Sembra rappresentare il lato inconscio e più nascosto dell’artista, che si materializza in una figura femminile che ovviamente rappresenta l’amore, quel sentimento sempre cercato. Appare e scompare dalla scena come un’ entità che sembra appena lambire il palco, sfuggevole e fantastica. Attraverso movenze delicate e femminili, ammalia inevitabilmente il pubblico e sembra far breccia anche nel compositore.
Paciullo, come vuole la moda dell’epoca, insieme all’immancabile neo finto da cicisbeo di corte sulla guancia, veste in un elegante vestito rosso che cozza con la scenografia profondamente nera, e con tanto di copricapo piumato ai suoi piedi dà vita ad un personaggio eclettico ed eccentrico. Un sofferente precursore dei tempi in ambito musicale, un indomito genio che stanco di incassare, apertamente accusa la sua società ipocrita e malata vomitando rancore anche sulla sua famiglia e sulla moglie. Ora che è pronto al passo finale della sua esistenza, in piena solitudine si spoglia di ogni remora.
Paciullo è assai dinamico nella sua interpretazione, muove le dita a tempo sulle basi registrate dei brani di Mozart; trasognante, è perso in un’altra dimensione mentre sembra suonare un pianoforte immaginario che forse rappresenta le corde della sua anima stanca.
Patrizio è istrionico, irriverente, provocatorio, canzonatorio, adirato, afflitto, intenso, ossessionato, burlesco, sofferto, ma a tratti anche divertente, claunesco direi. Questo attore vive Mozart e sprigiona dal suo intimo empaticamente tutto il disagio del genio, mostrando tutta una lunga serie di stati d’animo che poi riversa sul pubblico, stasera eletto a rappresentanza di quella corte imperiale tanto deprecata.
Fedele ad una sceneggiatura profonda che ci rende partecipi del carattere, del pensiero e delle vicissitudini di un giovane che ha lasciato un segno indelebile nella storia della musica, è molto espressivo. Con una gestualità a volte pacata o esuberante, esterna alternativamente movenze gradevoli, educate, fini ed aggraziate tipiche del nobiluomo di classe e di corte, a frequenti tic e gesti convulsi nei momenti di tensione e sfogo. La personalità ricca di sfumature di Mozart, insomma, è efficacemente comunicata, e Patrizio sa tenerla a freno per farla esplodere al momento giusto, dando vita ad un credibile Amadeus.
Insomma, siamo davanti a uno splendido e toccante tributo ad un grandissimo musicista. Picchiotti ha saputo cogliere ed evidenziare le sfumature di questo grande, scegliendo un modo originale per farlo e degli interpreti giusti