Palazzo Barberini Roma
In una stanza debitamente preparata e particolarmente buia del Palazzo Barberini, viene esposta per la prima volta al pubblico quest’opera sconosciuta di Caravaggio.
Suggestivamente illuminato questo è uno dei pochi ritratti conosciuti eseguiti dall’artista, che immortala l’allora trentenne monsignor Maffeo Barberini (1568-1621), noto in seguito come papa Urbano VIII.
Grande letterato, poeta e collezionista d’arte, l’uomo venne immortalato sulla tela nel 1599 circa. L’opera fu forse commissionata in seguito alla nomina di Maffeo a chierico della Camera Apostolica avvenuta nel marzo del 1598.
Una tappa fondamentale per divenire cardinale; carica ricevuta nel 1606, proprio quando Caravaggio cominciò ad “ingagliardire gli oscuri”, come usava dire Giovan Pietro Bellori (1613-1696), scrittore, antiquario e storico dell’arte.
Alcuni storici farebbero invece risalire la tela al 1603, perché in questo periodo risultano ben quattro pagamenti incassati dal Caravaggio per l’esecuzione di un quadro eseguito per Maffeo, ma di cui non è specificato il soggetto. Se così fosse, la tela verrebbe collocata nel periodo in cui Urbano VIII fu Nunzio Apostolico a Parigi presso la corte di Francia di Enrico IV.
Dunque prima del viaggio che sarebbe stato decisivo per la sua carriera.
L’ecclesiastico indossa una berretta nera ed un abito talare smanicato sopra una veste bianca plissettata. La figura è ritratta posizionata a tre quarti, ed illuminata da un fascio di luce mentre è seduta su una poltrona messa per sbieco emergente dal buio.
Una veste, una poltrona, una lettera piegata, un rotolo di documenti sono gli unici oggetti che emergono dall’ambiente.
L’uomo ha lo sguardo impaziente, la bocca semiaperta e con la mano destra sembra voler bucare lo spazio mentre la rotea.
Sembra così rivolgersi a qualcuno posto fuori la scena. Nell’altra mano stringe energicamente una lettera ripiegata. In primo piano si vede un rotolo di documenti chiuso da un cordone di velluto, utile per identificare l’uomo dipinto, di cui viene così sottolineato lo stato d’animo, la forte personalità e il potere.
La tecnica usata vuole far risaltare attraverso l’uso della luce la pelle levigata ed abbagliante del soggetto. Questa particolarità spicca soprattutto sulla fronte e sull’occhio destro. Gli occhi chiari hanno un leggero strabismo che ne accentua l’espressività.
Caravaggio usa pochi colori per quest’opera: bianco di piombo e terre per l’incarnato abolendo il cinabro, poi verde rame per la veste e lo schienale della seduta, cinabro solo sui profili rossi, giallorino per le borchie della sedia e terre brune per le maniche.
Le sfumature sono esaltate da varie tonalità di verde: metallico, oliva, dorato e squillante per far risaltare alcune parti della veste, il cordone dei documenti e la poltrona.
Il primo a parlare pubblicamente di questa tela fu lo storico e critico dell’arte Roberto Longhi nel 1963 su una rivista, dopo che un anno prima l’aveva scoperta Giuliano Briganti, un altro esperto del settore. Secondo quest’ultimo la tela faceva parte della collezione Barberini ed era poi finita sul mercato delle antichità intorno al 1935.
Anche Federico Zeri, un altro storico dell’arte si occupò della tela, attribuendola al noto artista e testimoniandone la provenienza dal mercato di opere d’arte romano.
Il dipinto in passato ha subito un importante intervento di restauro che ne ha preservato tutta la sua bellezza.
Il quadro sarà esposto dal 23 novembre al 23 febbraio 2025. Poi ritornerà al suo legittimo proprietario nella sua collezione privata. Approfittatene.
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